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[h=6]LA VIDEOINCHIESTA[/h] [h=1]«Io, prostituta nigeriana: violentata in Libia, picchiata in Italia, ho un debito da 50 mila euro»: così le ragazze vengono costrette a vendersi[/h] [h=2]Il racconto di una prostituta «In Libia ci violentavano davanti ai bambini. In Italia costretta al marciapiede»[/h] di Amalia De Simoneshadow
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Sono un bancomat di carne per le organizzazioni criminali. La mafia nigeriana le recluta sempre più giovani, possibilmente minorenni: «Agli italiani piacciono esili e molto giovani» si legge in una intercettazione riportata in un provvedimento di arresto del tribunale di Napoli a carico di tre persone che riducevano in schiavitù ragazze nigeriane obbligandole a prostituirsi.





«Secondo l’organizzazione internazionale delle migrazioni nel 2016 in Italia sono entrate 12 mila ragazze nigeriane con il flusso dei rifugiati e richiedenti asilo» spiega Andrea Morniroli della cooperativa sociale Dedalus. «Questo significa per le organizzazioni criminali un investimento pari a 35 mila euro (la quota minima di debito che viene imposto alle ragazze) moltiplicati per 12 mila cioè 420 milioni di euro». Cifre impressionanti che la mafia nigeriana reinveste in droghe e armi alimentando un business criminale spesso sottovalutato. «Va detto che invece il nostro governo sul piano nazionale antitratta investe circa 20 milioni all’anno - aggiunge Morniroli - è evidente che c’è una sproporzione enorme e non si riesce a far fronte all’emergenza».

Sarà per questo che guardando il video arrivato ad una delle nostre fonti (un mediatore culturale) mentre giravamo la videoinchiesta sulle prostitute minorenni nigeriane, non ci sorprende più la violenza con cui una madame si scaglia contro una giovane donna che si rifiuta di andare sulla strada. Il video, presumibilmente girato in una connection house a Castelvolturno e inviato da una delle ragazze presenti, mostra un pestaggio molto violento: la madame trascina la ragazza per i capelli, la morde e poi la colpisce con calci e pugni fino a lasciarla a terra, tra il letto e il comodino, priva di sensi.

«Queste ragazze fuggono da una situazione di estrema povertà e arrivano in Italia dove finiscono per diventare schiave del loro stesso sistema» racconta l’operatore sociale Agostino Trinchese . «Una volta nel nostro paese non hanno numeri di telefono se non quello dello sponsor che sono obbligate chiamare. A quel punto la condanna è segnata: l’organizzazione le va a prelevare nei centri di accoglienza e poi le obbliga a prostituirsi finchè non estinguono il loro debito che va da 35 a 55 mila euro. In genere le portano a Castelvolturno e poi le fanno ruotare in giro in varie zone d’Italia o le portano all’estero». In strada, sul litorale tra Lazio e Campania si può notare un’elevata mobilità delle baby prostitute e c’è un ricambio continuo delle ragazze di settimana in settimana. «Dopo essere arrivate a Castelvolturno dai vari centri di accoglienza – aggiunge Morniroli - restano qualche settimana e vengono poi smistate in varie città italiane e in altri paesi europei. Il numero degli arrivi è talmente alto che noi programmiamo posti di accoglienza per un anno nell’ambito di alcuni progetti ma poi dopo un mese ce li abbiamo già pieni».

Anche i medici di Emergency hanno notato una corrispondenza tra gli sbarchi e gli arrivi delle piccole schiave sul litorale domizio: «Sbarcano in Sicilia poi vengono portate nei vari centri di accoglienza straordinaria e dopo un paio di settimane ce le ritroviamo qui a Castelvolturno – dice Sergio Serraino - a volte sono incinte perché in Libia dove sostano prima di imbarcarsi verso l’Italia,
subiscono ripetute violenze sessuali». Anche R. è stata violentata in Libia. Lei è fuggita dalla Nigeria per aiutare la sua famiglia ma la sua vita si è trasformata in un incubo: «In Libia ci hanno messo in una stanza. Ero insieme ad altre donne e con noi c’erano anche dei bambini. Cinque uomini ci hanno violentato davanti ai bimbi, hanno abusato delle loro mamme davanti ai loro occhi. Quando smisero ci andarono a prendere del cibo ma lo fecero solo per rimetterci in forze e poter ricominciare a violentarci». R. vorrebbe lasciare la strada e ci ha già provato un volta ma la sua madame l’ha picchiata e la fa spesso controllare da uomini dell’organizzazione. E’ molto bella anche con le sue tante cicatrici e mentre parla alterna risate nervose al pianto dirotto. Poi però si fa malinconica quando pensa al suo paese e al viaggio che ha dovuto affrontare: «Ringrazio Dio ogni giorno per non essere morta in mare. Imbarcavamo acqua di continuo. In tanti ci hanno rimesso la pelle. Io ho solo chiuso gli occhi e pregato. Quando li ho riaperti ero a Lampedusa. Il mare non mi ha ucciso, non voglio che mi uccida un destino di schiavitù. Altrimenti tutto questo dolore non sarà servito a niente».
 

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