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[h=1]L’allarme dell’Ocse, i robot metteranno a rischio 66 milioni di posti di lavoro[/h] [h=2]In Italia il pericolo riguarderà dai 3 ai 10 milioni di lavoratori[/h]
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Redazione Tiscali

Il 14% dei posti di lavoro oggi disponibili nei paesi membri dell’Ocse sarà presto minacciato dall’avanzare delle tecnologie robotiche. In totale, evidenzia uno studio firmato dalla stessa Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, robot e intelligenza artificiale metteranno a rischio 66 milioni di posti di lavoro. Quanto descritto nel rapporto intitolato “Automation, skills use and training” viene descritto come un catastrofico scenario che riguarderà da vicino un lavoratore su sette. Al dato, di per sé allarmante, si deve poi aggiungere un ulteriore 31 per cento di lavoratori che, pur mantenendo la propria occupazione, subirà significativi cambiamenti nelle modalità di lavoro: tra il 50 e il 70 per cento di loro dovrà affrontare mutamenti radicali in quello che fa. I lavoratori più esposti, evidenziano gli esperti dell’Ocse, rischiano di non esser neppure tutelati dalle istituzione che, non avendo previsto tale evoluzione, non hanno pensato a sviluppare progetti per la trasformazione delle professionalità. In linea di massima, le professioni nel mondo anglo-sassone, nei paesi nordici e nei Paesi Bassi sono meno automatizzabili di quelle nell’Est e Sud Europa, Germania, Cina e Giappone. In Italia il problema riguarderebbe da vicino 3 milioni di lavoratori, e il dato - sottolineano gli esperti - è ottimistico, perché tale numero potrebbe addirittura raddoppiare, interessando più o meno la metà della forza lavoro italiana.
[h=2]A rischio dai 3 ai 10 milioni di posti anche in Italia[/h]
Per gli analisti i lavori più sacrificati saranno quelli che si esauriscono con l’esecuzione di compiti di routine. Chi si occupa di sviluppare idee originali, inventare prodotti e più in generale i creativi, non correranno rischi. La passeranno liscia anche tutti i professionisti che stanno a stretto contatto con le persone, quelli che si occupano di cogliere emozioni e sentimenti. Qualche rischio, limitato, per tutti i lavoratori che hanno il compito di monitorare ambienti mutevoli e in situazioni complesse non programmabili. Saranno invece a rischio i lavoratori generici non specializzati… La proiezione dell'Ocse è che, nei paesi industrializzati, i lavori con un rischio di automazione superiore al 70 per cento siano il 14 per cento del totale. L'Italia rispetta tale media, pertanto i posti minacciati da robot e intelligenza artificiale saranno non meno di 3 milioni. [h=2]Ecco chi si salverà[/h]
I settori più esposti sono quelli dell’industria e dell’agricoltura, ma anche una serie di attività nei servizi come spedizioni, trasporti e servizi alimentari. Negli ultimi dodici mesi, i lavoratori di settori completamente automatizzabili hanno avuto tre volte più possibilità di partecipare a sessioni di training sul posto di lavoro, rispetto a quelli impiegati in attività non automatizzabili. In ogni caso le professionalità meno qualificate e i giovani risultano avere meno possibilità di partecipare a formazione e apprendimento a distanza. L’Ocse, proprio per questo motivo, nel documento ha voluto sottolineato l'importanza di sostenere i giovani, formandoli adeguatamente durante il periodo di studi. Fondamentale sarà poi promuovere la riqualificarsi di tutti quei lavoratori il cui futuro viene stravolto dall’innovazione, così da ridurre al minimo i disagi economici.
 

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[h=1]UNIBO: braccia robot mosse con il pensiero[/h]
Ricercatori del Dipartimento di Farmacia e Biotecnologie dell'Università di Bologna sono riusciti a decodificare l’attività neurale che anima una mano nell’atto di afferrare un oggetto: un primo passo per creare protesi robotiche azionate direttamente dal cervello

By Redazione -
4 maggio 2017
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[IMG2=JSON]{"alt":"Mano robot","data-align":"none","data-size":"full","height":"398","title":"Mano robot","width":"686","src":"https:\/\/science.closeupengineering.it\/wp-content\/uploads\/2017\/05\/Mano-robot.png"}[/IMG2] Mano robot, credits: UNIBO
Muovere con il pensiero un braccio o una mano robotica: è l’orizzonte delle protesi neurali, arti artificiali che potrebbero rivelarsi rivoluzionari per la vita delle persone paraplegiche o tetraplegiche. Un gruppo di ricerca del Dipartimento di Farmacia e Biotecnologie dell’Università di Bologna ha fatto un primo, importante passo avanti in questa direzione, riuscendo a decodificare l’attività neurale che anima una mano nell’atto di afferrare un oggetto.
Quando i nostri occhi osservano un oggetto da prendere, infatti, il nostro cervello dà vita ad una serie di complesse operazioni: per identificare e localizzare l’oggetto, per programmare l’azione giusta da compiere, e infine per dare inizio al movimento dell’arto. Tutti processi che vengono compiuti senza sforzo da individui normodotati, ma che non riescono ad attivare un movimento corretto negli individui con lesioni spinali, perché la lesione impedisce al segnale motorio di far muovere l’arto. Da qui la necessità di sviluppare interfacce cervello-macchina in grado di utilizzare direttamente l’attività neurale per azionare una protesi – come ad esempio un braccio robotico – bypassando la lesione del midollo spinale.
Per arrivare a questo risultato bisogna però prima risolvere un problema non semplice: registrare l’attività neurale del cervello e capire come decodificarla. I primissimi tentativi in questo senso sono partiti dieci anni fa negli Stati Uniti, utilizzando l’attività della corteccia motoria primaria, l’ultima stazione corticale che controlla i nostri muscoli volontari.
Rispetto a questi primi esperimenti, il gruppo di ricerca dell’Università di Bologna, guidato dalla docente Unibo Patrizia Fattori, ha però cambiato obiettivo e si è focalizzato sulla corteccia parietale posteriore. E ha avuto successo: gli studiosi sono riusciti infatti in questo modo a decodificare la configurazione della mano per afferrare oggetti diversi.
“La regione corticale non è una regione strettamente motoria, ma è fortemente coinvolta nell’esecuzione del movimento di avvicinamento e afferramento degli oggetti. I risultati dello studio dimostrano che l’attività usata per la decodifica neurale indica con chiarezza quale configurazione della mano verrà usata quando si afferra un oggetto con una specifica forma” – spiega la professoressa Fattori –
Non solo: i risultati della ricerca mostrano anche un cambio di codice tra il momento che precede il movimento dell’arto e il momento in cui viene afferrato l’oggetto. “Durante la visione dell’oggetto da prendere i neuroni usano un codice ‘visivo’, che analizza cioè le caratteristiche dell’oggetto, la sua forma e il suo orientamento nello spazio. Successivamente, i neuroni utilizzano invece un codice ‘motorio’ per poter correttamente configurare le dita e la mano in modo da riuscire a prendere l’oggetto” – spiega Rossella Breveglieri.
La scoperta del gruppo di ricerca Unibo, tassello fondamentale verso l’obiettivo delle protesi neurali, è stata pubblicata sulla prestigiosa rivista di neuroscienze americana The Journal of Neuroscience, in un articolo il cui primo autore è Matteo Filippini, giovane dottorando della Scuola di Dottorato in Scienze Biomediche e Neuromotorie dell’Alma Mater, diretta dal professor Lucio Cocco.
 

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di Massimo Sandal

5 MAG, 2018
HOME SCIENZA MEDICINA[h=1]E se un cervello in provetta iniziasse a pensare?[/h] [h=2]Un giorno cervelli artificiali, cresciuti in provetta, potrebbero essere coscienti. Siamo ancora agli inizi, ma è bene porsi delle domande etiche[/h] [IMG2=JSON]{"alt":"(Organoidi di topo. Immagine: Wikimedia Commons)","data-align":"none","data-size":"full","height":"390","title":"1525172874_Murine_Organoid_Smile","width":"696","src":"https:\/\/images.wired.it\/wp-content\/uploads\/2018\/05\/04165325\/1525438405_1525172874_Murine_Organoid_Smile1.jpg"}[/IMG2] (Organoidi di topo. Immagine: Wikimedia Commons)
Che si fa quando una coltura di cellule inizia a pensare? È la domanda che si pongono 17 ricercatori di tutto il mondo in un editoriale su Nature, di fronte alle ultime frontiere della neurobiologia. Perché abbiamo iniziato un percorso che ci potrebbe portare, in un futuro remoto ma forse non troppo, a cervelli artificiali che crescono in provetta. Portato al suo estremo, un’altra forma di intelligenza artificiale: non informatica ma organica, potenzialmente simile a quella umana.

Prendiamo per esempio quanto riportato l’anno scorso da Nature in uno studio firmato da Giorgia Quadrato, Paola Arlotta e collaboratori di Harvarde Mit. Un piccolo globo di tessuto nervoso è cresciuto per nove mesi in un bagno di liquidi nutritivi. I suoi neuroni, di numerosi tipi, sono gli stessi del cervello umano, e come nel cervello umano comunicano tra loro con segnali elettrici, ritmici e organizzati. Contiene tra l’altro le stesse cellule della retina del nostro occhio. Quando una lampada Led si accende, infatti, la rete di neuroni cambia la sua attività: ha percepito la luce. Suona come la nascita di un replicante di Blade Runner ma è realtà.

Siamo davvero lontani da un vero cervello, sia chiaro: è un cosiddetto organoide, una struttura di cellule tridimensionale generata a partire da cellule staminali. Un organoide è una miniatura che imita solo alcune caratteristiche di un organo, che può essere il cervello o qualsiasi altro organo. Gli organoidi cerebrali oggi non sono più grandi di una lenticchia e contengono al massimo 3 milioni di cellule: sembrano tante, ma è una miseria in confronto a un cervello umano di 1350 centimetri cubi e che può vantare 86 miliardi di cellule. La loro organizzazione, se ne esiste una, è estremamente rudimentale. Non contengono tessuti fondamentali come la microglia, né vasi sanguigni. Per ora l’attività nervosa che mostrano è priva di significato: non sta pensando, se ve lo foste chiesto.

Gli organoidi sono però uno strumento prezioso per i ricercatori, in quanto riproducono bene numerose caratteristiche dell’organo reale e potrebbero, in alcuni casi, sostituire i modelli animali. Da vari anni gli organoidi cerebrali stanno rivelando molto sulla biologia del cervello, permettendo di investigare patologie che vanno dall’autismo all’infezione da virus Zika. Per questo i ricercatori vogliono costruire organoidi sempre più complessi e vicini all’organo vero. Un obiettivo che nel caso di uno stomaco non pone particolari problemi, ma le cose cambiano quando si tratta di un cervello. Organoidi cerebrali sempre più realistici potrebbero arrivare a essere senzienti e coscienti, almeno in teoria.
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Cervello umano conservato al Museo della Natura e della Scienza di Denver, Usa. Foto: Steve and Shanon Lawson (Flickr)
Si aprono dunque numerosi problemi etici e filosofici. Come bisogna sperimentare su un organoide cerebrale complesso? Bisogna, per sicurezza, anestetizzarlo? Cosa fare quando sono finiti gli esperimenti? Possiamo davvero buttarlo nel lavandino? Come si garantisce il benessere di un cervello in provetta? A che punto inizia ad acquisire dei diritti, e come facciamo ad accorgercene?

In effetti, se un organoide fosse cosciente, probabilmente non ce ne renderemmo conto. È tuttora dibattuto quali siano i correlati neurologicinella coscienza in un cervello normale (ovvero, quali parti e attività del cervello siano coinvolte nella coscienza), e anche se fossero noti con precisione non è detto che un cervello cresciuto artificialmente segua le stesse regole. Un organoide in provetta, del resto, non può gridare: non avremmo modo di sapere se stimolandolo, lo facciamo effettivamente soffrire (o se non soffra essendo cosciente, ma completamente sconnesso da ogni esperienza sensoriale). Perché possa avere delle sensazioni, peraltro, non serve che sia complesso come un cervello umano.

E se anche i cervelli in provetta non riuscissero mai a diventare complessi come uno vero, che dire di cervelli tenuti in vita fuori dal corpo?

Ci sono inoltre esperimenti che anticipano problemi ulteriori. Due settimane fa è stato riportato lo sviluppo di un organoide cerebrale umano trapiantato nel cervello di un topo. Nel suo sviluppo, i neuroni umani sono entrati in connessione con quelli del cervello del topo. Dimenticate scenari fantascientifici del tipo “cervello umano in un corpo di topo”: per il topo, ora come ora, l’organoide è fondamentalmente una inutile seccatura. Ma in futuro esperimenti di questo tipo potrebbero portare ad animali cognitivamente modificati, magari migliorati grazie a tessuto nervoso umano. Come considerare una chimera di questo tipo?

La possibilità di ricostruire cervelli o parti di esso mette in discussione, infine, lo stesso concetto di vita, personalità e morte. Pensiamo al caso di Alfie Evans. Se si riuscisse a riparare cervelli devastati da malattie o incidenti sarebbe stato possibile salvarlo: ma quel cervello nuovo, cresciuto in laboratorio sia pure dalle cellule di Evans, sarebbe sempre Alfie Evans? Non avrebbe la stessa personalità e le stesse esperienze. Sarebbe, sotto vari aspetti,un individuo nuovo. Il concetto stesso di morte cerebrale rischia di perdere senso, in un ipotetico mondo in cui i cervelli possano essere riparati – ma anche qui, chi sarebbe il sopravvissuto?

Nel bene e nel male siamo ancora lontani da questi scenari. Forse alcune di queste ipotesi non si realizzeranno mai. Ma la strada è aperta, e quindi ha senso farsi queste domande adesso, prima che sia troppo tardi. Di risposte per ora non ce ne sono, perché la scienza da sola non fa l’etica: sono da costruire assieme, mettendo al tavolo la scienza e la società di cui fa parte. Gli organoidi, e in generale la prospettiva di rigenerare il sistema nervoso, sono e saranno enormemente utili per l’umanità. Il modo migliore per evitare di averne irragionevoli paure ed evocare lo spettro di Frankensteinè affrontare il discorso apertamente, in tempo.
 

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Salute | Tecnologia [h=1]Esseri umani che si uniranno
ai robot: ecco la razza dei super-dèi
[/h] [h=2]In un futuro non troppo lontano, gli esseri umani diventeranno degli ibridi uomini-robot. Ecco come potrebbe cambiare la nostra vita[/h] STEFANIA DEL PRINCIPE
LUNEDÌ 7 MAGGIO 2018
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In futuro avremo ibridi uomini-robot? (SERGEYIT | SHUTTERSTOCK)
To be a Machine, è questo il titolo del nuovo libro del famoso giornalista Mark O'Connell, nel quale si parla di uno dei temi più discussi del momento: il transumanesimo. Si tratta, in sintesi, di un movimento che spinge i limiti dell’essere umano, ne potenzia al massimo le capacità, l’intelligenza e la durata della vita, il tutto grazie al supporto della tecnologia più avanza. E pare proprio che l’idea sia stata accolta con favore specie tra i miliardari della Silicon Valley e le più grandi aziende del mondo. Dove potrebbe arrivare il transumanesimo? Forse a cose che al momento possiamo solo immaginare: una nuova razza di dèi.

Nuove speranze per l’umanità?
«Possiamo e dobbiamo sradicare l'invecchiamento come causa di morte», scrive O’Connel. I transumanisti, infatti, credono gli umani «useranno la tecnologia per migliorare i nostri corpi e le nostre menti». Ma non solo: è certo che un giorno gli esseri umano potranno «fondersi con le macchine, rifacendoci, infine, nell'immagine dei nostri stessi ideali superiori». Grazie a queste e altre dichiarazioni O’Connel ha appena vinto il premio Wellcome Book.

Cosa accadrà in futuro?
Secondo il giornalista, in un futuro non troppo lontano, avremo a disposizione gli impianti per aumentare i nostri sensi e rilevare direttamente radiazioni infrarosse e ultraviolette. Potremmo farci impiantare chip che potenziano la memoria o sostituire parti del corpo difettose o mancanti. Infine, grazie alla tecnologia, tutto potrà essere potenziato: forza, intelligenza e durata della vita.
Si potrà finalmente dare inizio a una nuova stirpe di super-dèi.

Un grande dibattito
Se tutto ciò non sarà poi così tanto difficile da mettere in pratica, è innegabile che il transumanesimo sta portando a sollevare molti dubbi etici: la stragrande maggioranza dei dibattiti sono ancora in corso. D’altro canto i cambiamenti sono già nell’aria come si evidenzierà al The Future Starts Here che si terrà prossimamente a Londra. Qui si potranno vedere diversi prototipi interessanti: abbigliamento potenziato in grado di imitare la biomeccanica del corpo umano che consentirà di avere maggiore forza, anche da anziani. Sostanze in grado di migliorare la capacità di trasportare l’ossigeno ai muscoli. «Ci stiamo avvicinando al momento in cui, per alcuni tipi di sport su pista come lo sprint di 100 metri, gli atleti che corrono con le pale in fibra di carbonio saranno in grado di superare quelli che corrono su gambe naturali», ha spiegato al The Guardian Blay Whitby della Sussex University. Tuttavia, tutto ciò potrebbe essere controproducente: alcuni potrebbero richiedere la rimozione degli arti sani per averne alcuni tecnologici. Eppure c’è chi sarebbe perfettamente d’accordo con questa soluzione: «cosa c'è di sbagliato nel rimpiazzare pezzi imperfetti del tuo corpo con parti artificiali che ti permetteranno di ottenere prestazioni migliori - o che potrebbero permetterti di vivere più a lungo?», si chiede Kevin Warwick, della Coventry University. D’altronde lui si è fatto impiantare dei dispositivi elettronici impiantati nel suo corpo, tra cui uno che gli ha dato le capacità di avvertire gli ultrasuoni: «ho gli stessi sensi di un pipistrello».

Come robot
Warwick ha anche interfacciato il suo sistema nervoso con il suo computer in modo da poter controllare una mano robotica e sperimentare con i suoi sensi ciò che toccava. Lui e tutti i seguaci del transumanesimo ritengono che la tecnologia moderna possa offrire la possibilità, agli esseri umani, di vivere molto più a lungo e in salute. Basterebbe sostituire organi, carne, ossa e sangue con versioni molto più tecnologiche. Tuttavia sono necessari ancora ulteriori studi e sperimentazioni affinché gli scienziati siano in grado di manipolare geni e mettere in atto una nanotecnologia tale da renderci veri e propri dèi.

Quanto dobbiamo attendere?
Se l’idea vi piace, ma sapete che l’attesa sarà troppo lunga se paragonata alla durata della vostra vita, niente paura: Peter Thiel, fondatore di PayPal, ha pensato a una possibile soluzione. L’idea è quella di conservare i corpi in azoto liquido fino a che la scienza non avrà raggiunto una tale tecnologia. Una volta scongelati, tutti potremmo diventare super-uomini. Al momento, però, gli impianti criogenici ci sono solo negli Stati Uniti e in Russia. «Il transumanesimo è prezioso e interessante dal punto di vista filosofico perché ci fa pensare in modo diverso alla gamma di cose che gli esseri umani potrebbero essere in grado di fare - ma anche perché ci fa pensare in modo critico ad alcune di quelle limitazioni che pensiamo ci siano ma in realtà possono essere superate. Dopotutto stiamo parlando del futuro della nostra specie», ha dichiarato Andy Miah della Salford University.
Leggi anche:La chiave dell’immortalità? La crionica. 5.000 persone la stanno sperimentando
Il segreto dell’immortalità è racchiuso in una tecnica chiamata crionica. Cinquemila persone si sono già registrate al Cryonics Institute



cosa vuol dire:
Si potrà finalmente dare inizio a una nuova stirpe di super-dèi.

che la storia si ripete degli DEI CHE POI SI PENTONO E CREANO IL SEMPLICE ESSERE UMANO ?=Cioè noi che ritroviamo noi stessi ?

 

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