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Immigrato di 22 anni si toglie la vita

Alien.

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[h=1]Immigrato di 22 anni si toglie la vita «Gli avevano negato l’asilo politico»[/h] [h=2]Taranto, la denuncia dell’associazione Babele. «Colletta per la salma in Africa»[/h]




I MIGRANTI IN ITALIA Immigrato di 22 anni si toglie la vita «Gli avevano negato l’asilo politico» Taranto, la denuncia dell’associazione Babele. «Colletta per la salma in Africa» Immigrato di 22 anni si toglie la vita «Gli avevano negato l’asilo politico» Una immagine di Amadou Jawo tratta dal suo profilo Facebook. Amadou Jawo Una immagine di Amadou Jawo tratta dal suo profilo Facebook. Amadou Jawo È salito sul terrazzo e si è impiccato a un cornicione della sua casa. Poco prima avrebbe ricevuto il no alla domanda di asilo politico. Amadou Jawo, 22 anni, del Gambia, era in Italia da due anni e viveva con altri connazionali a Castellaneta Marina, in provincia di Taranto. A dare la notizia del suicidio è stata l’associazione Babele che si occupa dell’accoglienza e dell’assistenza ai migranti. «Dopo il diniego alla domanda di asilo politico il giovane non poteva più restare in Italia. Si è trattato quindi di un gesto di grande sconforto». Secondo l’associazione, il ragazzo era arrivato in Italia con la speranza di migliorare la sua condizione economica, come tanti altri migranti. Forse per questo, fanno sapere, non ha retto: temeva di ritornare indietro come uno che ha fallito. Si vergognava». Una interpretazione dei fatti, una correlazione causa-effetto, che non collima con quella fornita da fonti del Viminale. Dove riferiscono che Amadou aveva un permesso di soggiorno con scadenza a marzo 2019. E che sullo status di rifugiato (respinto il 7 dicembre 2016 a cui il giovane aveva fatto ricorso lo scorso 12 ottobre) il giudice si era riservato la decisione. Come dire: la parola fine sulla vicenda non era stata ancora pronunciata. Riguardo ai motivi del suicidio, le stesse fonti dicono che i suoi compagni, parlando con i carabinieri «hanno imputato il gesto a uno stato depressivo. E che Amodou avrebbe anche manifestato l’intenzione di tornare in Gambia». L’associazione Babele intanto ha lanciato sui social network una raccolta fondi: «Bisogna riportare la sua salma nel villaggio in cui è nato. Servono circa 5 mila euro per pagare l’agenzia funebre. E il tempo stringe». Prima di essere trasferito a Castellaneta Marina Amadou era stato in una struttura di accoglienza nel leccese. Enzo Pilò, rappresentante dell’associazione Babele, ricorda così il ragazzo: «Anche se non era in assistenza da noi, frequentava il nostro centro. Come Babele forniamo aiuto anche a chi non assistiamo direttamente. Ci sono molti gambiani in questo momento. Jawo da noi trovava altri giovani del suo Paese, poteva parlare, confidarsi e utilizzare il Wi-Fi». Sono molte le richieste di asilo politico rigettate. Amadou avrebbe potuto chiedere la protezione umanitaria. «Ma questa via non è più percorribile come in passato — aggiunge Pilò —. L’ha eliminata il decreto Sicurezza». Babele segue e assiste nel tarantino circa 150 migranti. In attesa del rimpatrio in una bara, il corpo di Amadou si trova nell’obitorio del cimitero di Castellaneta. 17 ottobre 2018 (modifica il 17 ottobre 2018 | 21:48)
 

Alien.

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per questi ITALIANI nessuno ha fatto la colletta anzi sono caduti nel dimenticatoio ma ditelo alle famiglie ?
RICERCA [h=1]878 suicidi per motivi economici in 6 anni[/h]
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Crisi: aumentano depressione e suicidi
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15 Giugno 2018 - 21:00

In Italia, dal 2012 al 2017 sono stati 878 i casi di suicidio legati a motivazioni economiche, mentre 608 sono stati i tentati suicidi. A rilevarlo l'Osservatorio "Suicidi per motivazioni economiche", istituito all’interno di Link LAB, il Laboratorio di Ricerca sociale della Link Campus University, che dal 2012 analizza il fenomeno dei suicidi legati alla crisi e alle difficoltà economiche nel Paese. L’Osservatorio, diretto dal sociologo Nicola Ferrigni, pubblica oggi i dati aggiornati al 2 semestre del 2017, che ha visto 56 vittime contro le 47 dei primi 6 mesi dell’anno, per un totale di 103 casi.

LE CATEGORIE Dall’analisi dei 6 anni emerge come, nonostante la categoria professionale più colpita resti quella degli imprenditori, cresce il numero di vittime tra i disoccupati ma anche tra coloro che, pur possedendo un lavoro, faticano a trovare una stabilità economica, e in molti casi a far fronte alle comuni spese quotidiane. Se dal 2012 al 2017, infatti, gli imprenditori rappresentano il 42% del totale, il 40,5% sono disoccupati e l'11,6% lavoratori dipendenti. Considerando i dati sulla disoccupazione nel sud Italia, non sorprende che il numero più elevato di vittime tra i disoccupati si rilevi nelle regioni meridionali col 27,5% dei suicidi, mentre al Nord, patria delle piccole e medie imprese, crescono i casi tra gli imprenditori col 31,2%.

LE AREE Se il Nord-Est conta il 25,2% del totale dei suicidi avvenuti dal 2012 al 2017, rappresentano il 23,2% i casi al Sud, il 21,2% al Centro, il 19,8% nel Nord-Ovest e il 10,4% nelle Isole. Ma nel 2017, Sud e Nord-Ovest, entrambi con il 24,3%, superano il Nord-Est (22,3%). In testa le regioni Veneto e Campania che raccolgono rispettivamente il 16,4% e il 12,4% dei tragici episodi, in modo particolare con le province di Padova e Napoli, ma anche quelle di Venezia, Salerno e Treviso.
Dall’analisi emerge come la fascia d’età più esposta continui a essere quella che va dai 45 ai 54 anni. A preoccupare è la crescita dei casi tra i più giovani che rappresentano circa il 10% delle vittime al di sotto dei 35 anni.

IL SOCIOLOGO "I dati aggiornati al 2017 - commenta Ferrigni - evidenziano come siamo di fronte a un fenomeno che, da quando ha avuto inizio la crisi economica, sembra essere uscito da quella dimensione di 'straordinarietà' legata al suo essere estrema ratio di fronte a una situazione di difficoltà, assumendo invece una allarmante dimensione di 'ordinarieta'. Di qui dunque la necessità di una riforma strutturale del Welfare State in grado di ristabilire i diritti sociali. Di fronte alla evidente richiesta di aiuto che viene dalla società, è fondamentale l'impegno della politica nel rimettere al centro la dignità degli individui e la responsabilità dello Stato nel tutelare gli imprenditori e i lavoratori"



certi Italiani fanno leggermente schifo.
 

Alien.

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QUESTI SONO ITALIANI INFERIORI AGLI AFRICANI ?



[h=1]Vittime della crisi: suicidi o omicidi di Stato?[/h] Economia & Lobby | 5 aprile 2013
91 Più informazioni su: Crisi Economica, Esodati, Suicidi
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[h=5]Manuela Campitelli[/h] [h=6]Giornalista e ideatrice di www.genitoriprecari.it[/h] Post | Articoli
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Moglie e marito si uccidono, a seguire il fratello di lei. E’ sicuramente questa la notizia di oggi. Sessantotto anni la donna, sessantadue l’uomo e settanta il cognato. Una notizia di cronaca, se non fosse per un dettaglio dai risvolti sociali drammatici: le difficoltà economiche all’origine del gesto.

E’ sempre complicato parlare di un suicidio. L’atto di togliersi la vita, rappresenta comunque una scelta personale, seppur estrema. Quello che esula, in questo caso, dal concetto di scelta, sono le motivazioni che hanno portato a compiere gesto. Lui era un esodato, lei una pensionata da 500 euro al mese. I soldi non bastavano neanche per pagare l’affitto. Il bollettino di guerra, che denota una nuova categoria sociale fotografata persino dall’Istat, parla di 133 suicidi per motivi economici solo nei primi otto mesi del 2012.

Sono le cosiddette vittime della crisi: esodati, cassaintegrati, disoccupati, imprenditori sul lastrico, giovani e pensionati.
Più che suicidi, bisognerebbe iniziare a chiamarli omicidi di Stato.

FONTE:
https://www.ilfattoquotidiano.it/2013/04/05/vittime-della-crisi-suicidi-o-omicidi-di-stato/552858/
 

texwiller356

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Ma chi ha procurato questa orribile crisi che ha fatto e, continuerà a fare danni, a diverse milioni di persone.
 
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Alien.

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[h=2]«La crisi? E' studiata a tavolino»[/h]
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[IMG2=JSON]{"data-align":"none","data-size":"full","src":"http:\/\/www.cremonaweb.it\/images\/stories\/economia\/brunoamoroso.jpg"}[/IMG2]
La dinamica della crisi che affonda le radici in scelte precise, dettate dai colossi della finanza; la trasformazione del sistema bancario, con la scissione tra la banca di risparmio e quella di investimento; la speculazione sui titoli dei singoli Stati dell'area euro; i rischi del populismo in politica; i rischi dell’obbligo di pareggio nei bilanci pubblici. Temi importanti: per parlarne, l’appuntamento è a Cremona, presso Palazzo Cattaneo, venerdì 4 maggio alle 18, in un incontro promosso dal circolo culturale AmbienteScienze. con la partecipazione del professor Bruno Amoroso, docente emerito di economia internazionale dell'Università di Roskilde (Danimarca) e allievo del grande economista Federico Caffè. Prendendo spunto dal fenomeno "Occupiamo Wall Street", un movimento di protesta, nato negli Usa e poi diffusosi anche in Europa, teso a contrastare lo strapotere del capitale finanziario e l’azione delle banche, il docente farà il punto sulla situazione politica ed economica internazionale, sostenendo una tesi interessante ad allarmante: non si tratta di una “tradizionale” crisi del capitalismo, ma un percorso studiato a tavolino. Ne abbiamo parlato con lo stesso professor Amoroso.


Per quale motivo ha deciso di concentrarsi sul fenomeno “Occupiamo Wall Street?

«Perché questo tema mette al centro dell’attenzione due fatti sostanzialmente nuovi. Da un lato la specificità di questa crisi, che viene definita come finanziaria ma che in realtà è molto di più; dall’altro, perché “Occupy Wall Street” è una reazione piuttosto originale e inedita al fenomeno della crisi. La tradizionale protesta sociale che viene normalmente rivolta alla politica o al capitalismo, questa volta viene indirizzata nei confronti della finanza, rompendo gli schemi e uscendo dall’involucro del mero dibattito politico.

Anche gli attori della protesta sono cambiati; non si tratta più, infatti, di gruppi politici o sociali organizzati: ora a scendere in piazza sono i veri danneggiati dalla crisi, coloro che hanno perso il lavoro, o che si trovano in difficoltà economiche, i quali hanno indirizzato la loro protesta contro quei gruppi di potere che finora si erano nascosti all’ombra dei tecnicismi monetari e dell’autonomia delle istituzioni bancarie e finanziarie. Un movimento che dall’America è giunto anche in Europa e in Italia, due anni dopo, quando abbiamo visto dapprima una protesta degli studenti, e dopo una mobilitazione dei giovani italiani di fronte alla Banca d’Italia; per la prima volta, dunque, i giovani hanno rivolto le loro rimostranze a un soggetto che è il vero centro del potere, dimostrando di riconoscere chi sono i reali fautori della crisi».

Lei ha accennato al fatto che stiamo vivendo molto più di una crisi finanziaria. Cosa intende?

«Molti sono convinti che questa fase sia riconducibile alle tradizionali crisi del capitalismo. In realtà ci troviamo di fronte a un vero e proprio percorso organizzato e studiato a tavolino. Questa crisi non rappresenta un fallimento, quindi, ma il successo di chi ha voluto pianificare tale azione, e che ora si trova al potere. Sto parlando dei colossi della finanza. Basta analizzare quanto è accaduto dapprima negli Usa e poi in Europa, per comprendere queste dinamiche: negli Stati Uniti tutto ha preso il via tra gli anni ‘80 e ’90, quando si è voluto trasformare un sistema bancario che all’epoca era basato su regole molto oculate e dotato di vincoli ben precisi sugli investimenti a rischio, che impedivano alle banche di speculare con i fondi dei risparmiatori; ciò è cambiato con la scissione tra la banca di risparmio e quella di investimento. Nel decennio successivo, con Clinton e Bush, si è consentito alle banche di investire in operazioni finanziarie rischiose.

Da noi lo stesso percorso è avvenuto qualche anno dopo, a partire dagli anni ’90, con la privatizzazione del sistema bancario italiano: sono quindi spariti i piccoli istituti di credito, sostituiti da grandi gruppi bancari di investimento, che hanno messo in circolo in Italia i titoli spazzatura provenienti dagli Stati Uniti. Da qui il passo verso tracolli e crack finanziari è stato breve. La crisi che stiamo vivendo discende da tutto questo».

In uno scenario come quello che ha descritto, cosa può accadere all’Europa?

«Facciamo un passo indietro, a quando fu introdotto l’euro per sopperire alla debolezza delle monete nazionali dei singoli stati europei. Di fatto non tutti i paesi hanno aderito alla moneta unica, così ci troviamo di fronte alla presenza di 11 diverse valute, con il risultato che nel mirino della speculazione non sono finite le monete degli Stati piccoli, ma le debolezze dei titoli dei singoli Stati dell'area Euro i quali, pur essendo espressi nella stessa moneta, vengono valutati diversamente nei mercati finanziari. A peggiorare le cose ci sono le politiche che l'Unione sta portando avanti; emblematico è il caso del pareggio di bilancio: notoriamente per uscire da una crisi di dovrebbe aumentare il debito pubblico, dando così soldi alle imprese e alle famiglie, invece chiedendo il pareggio si fa esattamente il contrario. Inoltre sono convinto sia assurdo pretendere che il bilancio del settore pubblico sia in pareggio, in quanto esso viene comunque controbilanciato dal risparmio privato. Dunque sarebbe corretto chiedere il pareggio del bilancio dell'economia nazionale, che comprende pubblico e privato.

Intanto oggi nei posti di potere abbiamo proprio coloro che sono i primi responsabili della crisi. Basti vedere quanto peso hanno assunto le agenzie di rating, i cui pareri vengono accettati a occhi chiusi anche se in realtà esse sono parte integrante del sistema finanziario speculativo che dovrebbero controllare. I sistemi finanziari hanno costruito legami che impediscono ogni forma di competizione interna e hanno anche il pieno controllo dei sistemi monetari (dollaro, sterlina e euro) come dimostra la loro presenza nei posti chiave del governo dell'economia e della moneta sia negli Stati Uniti sia in Europa».

Cosa stiamo rischiando?

«Molti pensano di essere già arrivati all'apice della crisi, ma in realtà gli effetti più devastanti, dal punto di vista sociale ed economico, si presenteranno tra il 2012 e il 2013, come conseguenza delle politiche restrittive che l'Europa ha imposto agli Stati membri. Ciò si andrà a sommare ai problemi già esistenti di perdita di lavoro e di reddito, con ripercussioni e conseguenze pesantissime. Avremo infatti due forme diverse di reazione. Da un lato quella degli strati più bassi della popolazione, che reagiscono cercando di riorganizzarsi, incrementando il lavoro sommerso e spesso cadendo nella microcriminalità. Dall'altro lato avremo invece la reazione più "pericolosa", quella del ceto medio. Il sistema di welfare italiano, infatti, è incentrato sulla famiglia e sul sostegno ai figli da parte dei genitori. Dunque chi arriva ad avere magari due o tre appartamenti a sessant’anni non è in realtà un ricco, ma una persona che ha lavorato una vita risparmiando per poter dare una casa ai figli. Le misure del governo Monti, in questo senso, toccano il cuore del sistema familiare italiano, mettendo in discussione i rapporti intergenerazionali. Questo sta scatenando una reazione contro i gruppi sociali più poveri e in difficoltà, come quello degli immigrati. Anche le maxi operazioni che si stanno portando avanti contro l'evasione fiscale rischiano di essere dannose: si colpiscono infatti i piccoli commercianti, che se lavorano in nero lo fanno solo per sopravvivere, mentre nessuno tocca chi ha procurato l'illecito nelle grandi speculazioni, come ad esempio il sistema bancario. Si sta concentrando la rabbia su chi comunque non potrà mai risolvere il problema economico del paese, e in questo modo si fomenta una reazione del ceto medio contro quello povero, fino a cadere in una vera e propria "guerra tra poveri". Conseguenza di ciò sarà un imbarbarimento della politica, che sta scadendo nel populismo. L'avvento del fascismo, negli anni '30, fu generato proprio da uno stato di cose simile: una situazione di disordine sociale che il re volle placare mettendo Mussolini al potere».

Quali soluzioni si potrebbero ipotizzare?

«Le proposte critiche si sono orientate in due direzioni principali. Gli economisti keynesiani propongono il superamento del sistema monetario dell'euro, che diventa un ostacolo per la ripresa economica. Il precedente sistema monetario europeo era basato sulle valute nazionali, con un sistema di fasce di cambi pre-concordati che consentivano una certa flessibilità e che hanno funzionato per 20 anni. L'euro ha sostituito la cooperazione tra monete nazionali, ma ha avuto l'effetto di dividere l'Europa. Basandosi su queste riflessioni, i keynesiani propongono di ristabilire le condizioni pre-euro. Inoltre si propone un fondo di solidarietà al quale dovrebbero concorrere sia i paesi con un eccesso di surplus sia quelli con un eccesso di deficit nella bilancia dei pagamenti. Il fondo dovrebbe aiutare in modo mirato i paesi in difficoltà. Si tratta di una proposta di buon senso, ma ha una debolezza: presuppone l'esistenza di governi nazionali autonomi, che invece in Europa non esistono più, in quanto tutti sono occupati dal sistema delle banche.

La mia proposta è invece quella di tentare di risolvere i problemi prodotti dall'euro dentro questo sistema. I problemi nascono da una divisione tra i paesi dell’area tedesca e quelli dell’Europa del sud. Per questo è ipotizzabile una divisione dell'euro in due zone, con rapporti di cambio concordati e meccanismi di solidarietà. La divisione della zona euro costringerebbe i governi e i movimenti politici dell’Europa del sud a riprendere una propria iniziativa più aderente alla realtà dei propri sistemi produttivi e sociali e consentirebbe uno spazio d’intervento ai movimenti sociali, politici e sindacali di questi Paesi. In secondo luogo, si riaprirebbe un processo di rifondazione dell'assetto istituzionale europeo, nella direzione di una struttura federale europea costruita non su singoli Stati e Paesi, ma su aree mesoregionali omogenee.

Questo è quanto di fatto già avviene nell'area dei paesi baltici e dell'Europa centrale. Ricordo che, ad esempio,nel '700 esisteva una "moneta latina", che veniva identificata con il franco. Tale sistema venne sciolto dopo alcuni anni, ma ancora oggi esistono il franco svizzero, quello francese, quello belga, e così via. Un fenomeno simile accadde nei paesi scandinavi, con la corona. Lo stesso dovrebbe accadere con l'euro, nel momento in cui non ha più la funzione di unire”.
 

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