Alien.
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[h=2][/h] 7.
Vuoi fare il meccatronico? Pericoli a parte, la diffusione dei robot collaborativi pone comunque ai produttori e agli utilizzatori due problemi. Il primo è di competenze. Servono meccatronici e programmatori, sia periti che ingegneri, spiegano Legnani e Visioli. Che conoscano bene gli automi e, altrettanto bene, le operazioni da automatizzare. Il secondo problema, più sociale, è l’accettazione da parte dei colleghi lavoratori. «Molto dipende dalle capacità organizzative dell’imprenditore — dice Alberto Pellero, direttore dello sviluppo strategico di Kuka Robotics Italia —; la strada giusta è puntare, oltre che al taglio dei costi, a innalzare la qualità. In questo caso ai cobot, che notoriamente non si lamentano mai, si affida la parte più faticosa e ripetitiva del lavoro, mentre le mansioni umane vengono arricchite di contenuti professionali di più alto valore». In questo mercato ha fatto ingresso anche il colosso Abb, che ha appena lanciato un suo modello (YuMi) all’Expo di Milano. «In Italia – dice Oscar Ferrato, business developer della multinazionale – prevediamo risposte positive perché queste macchine, estremamente flessibili, diventano convenienti a volumi bassi e alta varietà di prodotti, dunque sono perfette per la piccola e media impresa». E Fabio Facchinetti, dell’azienda italiana che distribuisce i prodotti di Universal Robots e altre case (Alumotion), aggiunge: «Quando, come spesso accade, i lotti produttivi sono piccoli e la produzione richiede zero difetti, queste macchine sono ideali. Rispetto ai robot tradizionali, sono molto più facili e rapide da programmare».


[h=1]robot ci ruberanno il lavoro? Guarda cosa
fanno oggi e cosa faranno[/h] Chef, anestesisti, guide contabili e segretarie: in tutte le professioni ci sono conoscenze replicabili con un algoritmo. Il risultato? Più innovazione e competenze umane sofisticate e più produttività, ma sempre meno posti
[h=3]di Maria Teresa Cometto, Pieremilio Gadda, Edoardo Segantini[/h]
33 5 0
Scheda 1 di 9
AVANTI
[h=2][/h] 1.
Un software lavorerà al posto nostro Un giorno, in un futuro non troppo lontano, questo articolo potrebbe essere scritto da un robot. Non è fantascienza. Già fin d’ora alcun importanti editori usano software per automatizzare la stesura di rapporti giornalistici. Il Los Angeles Times per esempio è un pioniere nel «robo-giornalismo»: il giornalista e programmatore Ken Schwencke ha creato un algoritmo che automaticamente genera un breve articolo appena avviene un terremoto, basandosi sui dati del servizio geologico degli Stati Uniti. E l’agenzia internazionale di notizie Associated press (Ap) nel solo ultimo anno ha pubblicato ben 3 mila articoli «scritti» da robot sui bilanci aziendali trimestrali: contengono meno errori e liberano tempo perché i reporter in carne e ossa possano dedicarsi ad analisi più complesse, dicono i manager di Ap.

Il giornalismo è solo uno dei numerosi mestieri da «colletti bianchi» dove l’automazione sta cambiando radicalmente il business e le prospettive di impiego. Infatti non è più solo l’industria manifatturiera quella in cui i robot vengono impiegati sostituendo manodopera (i «colletti blu»). Alcuni dei lavoratori più minacciati sono i «droni da ufficio», come li chiama Martin Ford: impiegati che siedono davanti a computer svolgendo funzioni di routine. La loro esperienza e capacità di giudizio può essere incapsulata in algoritmi che producono risultati simili o addirittura migliori. Gli addetti dei call center, che con il supporto di pc devono telefonare a potenziali clienti per vendere qualcosa (telemarketing) sono un tipico caso: la categoria di lavoratori con la più alta probabilità (99%) di essere rimpiazzati da robot, secondo un sondaggio fra esperti condotto da Npr (National public radio), la radio pubblica statunitense.


Appena sotto di loro, nella classifica dei mestieri a rischio di estinzione, ci sono i contabili che preparano i documenti per le tasse (98,7%): sono già in commercio pacchetti di software con cui i comuni contribuenti possono farsi da soli la dichiarazione dei redditi. I bancari allo sportello sono sempre meno indispensabili grazie agli apparecchi Bancomat e ai conti online (98,3%), ma nemmeno chi, nell’industria finanziaria, ha una professionalità sofisticata può sentirsi al sicuro. I robo-consulenti infatti sono già una realtà: servizi completamente automatizzati di analisi della situazione finanziaria di un risparmiatore, che grazie ad enormi banche dati ed algoritmi elaborano proposte di investimento personalizzate.
[h=2][/h] 3.
Saya e l’automa con il kimono Oltre agli algoritmi che possono sostituire lavori impiegatizi, anche nel settore degli servizi avanza l’automazione, con l’uso non solo di software ma di robot umanoidi. Vi ricordate Rosie, il robot casalinga della famiglia Jetson (i «Pronipoti» dei cartoni animati di Hanna-Barbera Anni Sessanta)? Qualcosa di simile lo trovate nei negozi giapponesi dove «lavora» ChihiraAico, l’automa in kimono creata da Toshiba, capace di dare il benvenuto ai clienti con frasi standard, sorridere e persino cantare; oppure, sempre in Giappone, negli uffici dove al ricevimento c’è la «segretaria Saya», capace di condurre una conversazione semplice sulla base delle 300 parole e delle 700 frasi del suo vocabolario. Servizi Nella Silicon Valley a Cupertino c’è poi un albergo, l’Aloft, dove il servizio in camera è a cura del robo-fattorino Boltr. In Cina alcuni ristoranti usano robot al posto sia degli chef sia dei camerieri. E persino negli ospedali l’automazione è sempre più praticata: l’autorità americana nel campo alimentare e farmaceutico, la Fda (Food and drug administration) ha dato l’ok a Sedasys, un sistema creato da Johnson & Johnson per somministrare anestesie leggere al posto degli anestesisti, che sono i professionisti più cari nelle sale operatorie.

[h=2][/h] 4.
La nuova manifattura Intanto in fabbrica sta prendendo piede una seconda generazione di robot, più intelligenti, più agili, più collaborativi, più adattabili, ha spiegato il WSJinun’inchiesta. Li usano soprattutto i produttori di automobili, ma non solo. Quelli costruiti dall’americana Rethink robotis e dalla svizzera Abb, per esempio, aiutano gli operai ad assemblare piccole componenti di prodotti dell’elettronica di consumo: abbassando i costi di assemblaggio, il loro impiego potrebbe servire a riportare negli Usa e in Europa lavorazioni fatte oggi in Cina. Ma è illusorio pensare che le nuove tecnologie nell’industria manifatturiera possano riportare anche posti di lavoro nei Paesi occidentali, sostiene Martin Neil Baily, economista del pensatoio di Washington Brookings institution ed ex presidente del Consiglio dei consulenti economici della Casa Bianca sotto Bill Clinton. Dei 5,7 milioni di posti di lavoro persi negli Anni 2000 nella manifattura negli Usa, solo 870 mila sono tornati in questo decennio. La «nuova» manifattura sarà cruciale per il futuro dell’economia americana e dei Paesi avanzati – spiega Baily – «non per la capacità di creare posti di lavoro, ma per il suo potenziale di spingere l’innovazione e la crescita della produttività e per il suo ruolo nel commercio e nella competitività internazionali». I leader sia industriali sia politici devono sostenere questa tendenza, secondo lui, anche se significa mettere ancor più robot al posto di lavoratori.


[h=2][/h] 5.
I «cobot» che piacciono alle piccole aziende Ecco s’avanza uno strano robot: non è rinchiuso in una gabbia, come gli automi tradizionali, ma lavora fianco a fianco all’operaio. Si chiama robot collaborativo, o, come dicono gli americani, cobot. E’ una nuova generazione di meccatronica leggera, che, grazie al costo inferiore e ad altre virtù, sta aprendo nuovi mercati e nuove applicazioni al di là dell’industria dell’auto e dei semiconduttori, dove la robotica è di casa da decenni. E, aspetto forse più interessante, si sta diffondendo rapidamente nelle piccole e medie imprese, di cui l’Italia è ricca. Esempi Cascina Italia, azienda avicola della provincia di Bergamo, utilizza cinque cobot per riporre negli scatoloni le confezioni di uova preparate dagli addetti alla linea. «Si adattano molto bene alla nostra dimensione – dice Ruggero Moretti, alla testa del gruppo alimentare da 80 milioni di euro cui Cascina Italia appartiene — innanzitutto per il prezzo: 25 mila euro contro le centinaia di migliaia dei robot classici». Beta Utensili — un’azienda monzese con 500 dipendenti e 13 mila articoli in catalogo (dalla chiave inglese alla pistola ad aria compressa del gommista) – li utilizza nel processo di ceratura: quando s’immerge la punta del cacciavite in una speciale cera bollente per far sì che resti nera ed evitare che sia cromata come il resto dell’utensile. «Grazie ai cobot – dice Davide Negroni, che si occupa di produzione sotto la guida di Dante Vismara – abbiamo ridotto del 75% i tempi di alcune operazioni, risparmiato sui materiali e destinato la manodopera a lavori meno usuranti e di controllo».


Un «cobot» in azione in un’azienda agricola
[h=2][/h] 6.
Dalle auto alle schede elettroniche La nuova automazione low-cost, oggi il 10% della robotica italiana ma in forte crescita, non è però soltanto pane per denti piccoli. La Magneti Marelli, nella produzione degli inverter (generatori elettrici per auto ibride), usa i cobot di fascia più alta per manipolare le schede elettroniche e montarle sui prodotti lavorati. Un’operazione che richiede estrema precisione, perché la scheda è un oggetto molto fragile. Mentre la Daimler impiega automi dello stesso tipo per assemblare grandi componenti della vettura, come i sedili e il volante. Sono macchine pericolose? «No – rispondono Giovanni Legnani e Antonio Visioli, professori d’ingegneria all’Università di Brescia e organizzatori di una giornata di studio per le associazioni di settore Anipla e Siri —: i cobot incorporano dispositivi che li bloccano quando entrano in contatto con l’uomo; in ogni caso la normativa internazionale impone limiti precisi di peso, velocità e potenza». Questo rassicura solo in parte alcuni imprenditori, che, pur interessati ai vantaggi della nuova tecnologia, temono ispezioni delle Asl se non proprio il blocco degli impianti.


[h=2][/h] 7.
Vuoi fare il meccatronico? Pericoli a parte, la diffusione dei robot collaborativi pone comunque ai produttori e agli utilizzatori due problemi. Il primo è di competenze. Servono meccatronici e programmatori, sia periti che ingegneri, spiegano Legnani e Visioli. Che conoscano bene gli automi e, altrettanto bene, le operazioni da automatizzare. Il secondo problema, più sociale, è l’accettazione da parte dei colleghi lavoratori. «Molto dipende dalle capacità organizzative dell’imprenditore — dice Alberto Pellero, direttore dello sviluppo strategico di Kuka Robotics Italia —; la strada giusta è puntare, oltre che al taglio dei costi, a innalzare la qualità. In questo caso ai cobot, che notoriamente non si lamentano mai, si affida la parte più faticosa e ripetitiva del lavoro, mentre le mansioni umane vengono arricchite di contenuti professionali di più alto valore». In questo mercato ha fatto ingresso anche il colosso Abb, che ha appena lanciato un suo modello (YuMi) all’Expo di Milano. «In Italia – dice Oscar Ferrato, business developer della multinazionale – prevediamo risposte positive perché queste macchine, estremamente flessibili, diventano convenienti a volumi bassi e alta varietà di prodotti, dunque sono perfette per la piccola e media impresa». E Fabio Facchinetti, dell’azienda italiana che distribuisce i prodotti di Universal Robots e altre case (Alumotion), aggiunge: «Quando, come spesso accade, i lotti produttivi sono piccoli e la produzione richiede zero difetti, queste macchine sono ideali. Rispetto ai robot tradizionali, sono molto più facili e rapide da programmare».

GiorgioSd 16 giugno 2015 | 10:24 Quando è arrivata l’auto i fabbri ferrai hanno chiuso. Il lavoro cambia e si evolve, probabilmente i poverini e quelli con la 5° elementare dovranno a rassegnarsi a fare i lavori che fanno ora gli immigrati, nulla di + vota Rispondi aside shadow 1. Un software lavorerà al posto nostro 2. I droni da ufficio 3. Saya e l’automa con il kimono 4. La nuova manifattura 5. I «cobot» che piacciono alle piccole aziende 6. Dalle auto alle schede elettroniche 7. Vuoi fare il meccatronico? 8. Il dilemma: ci seppelliranno. No, ci obbligheranno a saperne di più 9. E chi ha investito nelle azioni robotiche ha guadagnato il 483% ');">
GiorgioSd 16 giugno 2015 | 10:24 Quando è arrivata l’auto i fabbri ferrai hanno chiuso. Il lavoro cambia e si evolve, probabilmente i poverini e quelli con la 5° elementare dovranno a rassegnarsi a fare i lavori che fanno ora gli immigrati, nulla di + vota Rispondi aside shadow 1. Un software lavorerà al posto nostro 2. I droni da ufficio 3. Saya e l’automa con il kimono 4. La nuova manifattura 5. I «cobot» che piacciono alle piccole aziende 6. Dalle auto alle schede elettroniche 7. Vuoi fare il meccatronico? 8. Il dilemma: ci seppelliranno. No, ci obbligheranno a saperne di più 9. E chi ha investito nelle azioni robotiche ha guadagnato il 483% " style="height:26px; width:26px; margin:-20px 0 0 -20px; position:absolute; display: inline;">Siamo arrivati a un punto di svolta: la robotica, se non gestita nel modo giusto, può scatenare la disoccupazione di massa e il collasso economico della nostra società. Lo sostiene Martin Ford, imprenditore di software nella Silicon Valley, nel suo nuovo libro «Rise of the robots», ovvero «L’ascesa dei robot: la tecnologia e la minaccia di un futuro senza posti di lavoro». Secondo Ford è già cominciata una tendenza che avrà un impatto drammatico: mentre sempre più mestieri vengono rimpiazzati dai robot, cresce la disoccupazione o la sottoccupazione, i consumatori hanno meno potere d’acquisto, cala la domanda e l’economia crolla. L’opposto di un tecno-pessimista è invece James Bessen, docente alla scuola di Legge della Boston university e autore di un altro nuovo libro, Learning by doing («Imparare facendo»). Sostiene che il problema dei posti di lavoro automatizzati non sono i robot, ma la mancanza di lavoratori qualificati che sono necessari nei nuovi business. Bessen parte da un caso concreto: un centro di commercio al dettaglio vicino a Boston, su cui due anni fa la trasmissione tv «60 minutes» aveva fatto un servizio intitolato «I robot fanno male all’occupazione?». È vero che oggi in quel centro i robot hanno eliminato alcuni posti di lavoro, ma ne hanno creati altri, con mansioni tecnologiche e manageriali. E sono queste professionalità qualificate che oggi mancano. Per svilupparle, secondo l’autore sono necessarie nuove politiche sul mercato del lavoro, ma gli stessi operai e impiegati possono apprenderle sul campo, adattandosi alle nuove esigenze, come fecero i dipendenti del settore tessile nell’Ottocento con l’avvento dei telai meccanici e della prima Rivoluzione industriale


VE chi ha investito nelle azioni robotiche ha guadagnato il 483% Se l’interazione tra uomo e macchina pone una serie di questioni sociali e culturali molto complesse, la domanda degli investitori è più semplice: vale già la pena scommettere sulla robotica? Nel 2014 sono stati installati 205 mila robot (+15%). Le stime dell’International Federation of Robotics (Ifr) dicono che tra il 2015 e il 2017 questa cifra aumenterà in media a un tasso del 12% su base annua ed entro dieci anni, la spesa complessiva collegata supererà il miliardo di dollari. Tre fattori possono accelerare il processo di automazione: l’aumento della produttività imposto dalla crescente competizione a livello industriale, l’invecchiamento della popolazione che in molti Paesi renderà necessaria una sostituzione uomo-macchina e la convergenza tra costi di produzione robotizzata e forza lavoro umana: dal 2.000 in avanti i salari sono aumentati di circa il 500% in Cina e continueranno a lievitare a un ritmo del 18% l’anno. Sono sufficienti questi dati a trasformare il megatrend della robotica in un buon investimento? Di certo ha dato buoni frutti negli ultimi 10 anni. In questo periodo, l’indice Robo-Stox Global Robotics and Automation sviluppato dalla società Robo-Stox Partners Ltd raggruppando le aziende attive nel settore, ha reso il 483%, oltre quattro volte l’Msci world (seppure a fronte di una volatilità superiore). Quanto basta per alimentare il sospetto che sia una gigantesca bolla pronta ad esplodere. Ma c’è anche chi non è d’accordo. «Non vedo eccessi di euforia sul tema della robotica, né sul fronte dei consumi, né nel dibattito tra investitori», contesta David Borah, nel team d’investimento di The Boston Company am (Bnt Mellon).


ECCO PERCHE STANNO STERMINANDO IL CETO MEDIO,SEMPLICE TRA UN DECENNIO NON NE AVRANNO PIù BISOGNO E ALLORA COSA NE FARANNO DEGLI EXTRACOMUNITARI AFRICANI ?PATATINE FRITTE?
VIVRAI SOLO SE SARAI RICCO.........OPPURE GLI AUTOMI PRENDERANNO IL NOSTRO POSTO ?
Vuoi fare il meccatronico? Pericoli a parte, la diffusione dei robot collaborativi pone comunque ai produttori e agli utilizzatori due problemi. Il primo è di competenze. Servono meccatronici e programmatori, sia periti che ingegneri, spiegano Legnani e Visioli. Che conoscano bene gli automi e, altrettanto bene, le operazioni da automatizzare. Il secondo problema, più sociale, è l’accettazione da parte dei colleghi lavoratori. «Molto dipende dalle capacità organizzative dell’imprenditore — dice Alberto Pellero, direttore dello sviluppo strategico di Kuka Robotics Italia —; la strada giusta è puntare, oltre che al taglio dei costi, a innalzare la qualità. In questo caso ai cobot, che notoriamente non si lamentano mai, si affida la parte più faticosa e ripetitiva del lavoro, mentre le mansioni umane vengono arricchite di contenuti professionali di più alto valore». In questo mercato ha fatto ingresso anche il colosso Abb, che ha appena lanciato un suo modello (YuMi) all’Expo di Milano. «In Italia – dice Oscar Ferrato, business developer della multinazionale – prevediamo risposte positive perché queste macchine, estremamente flessibili, diventano convenienti a volumi bassi e alta varietà di prodotti, dunque sono perfette per la piccola e media impresa». E Fabio Facchinetti, dell’azienda italiana che distribuisce i prodotti di Universal Robots e altre case (Alumotion), aggiunge: «Quando, come spesso accade, i lotti produttivi sono piccoli e la produzione richiede zero difetti, queste macchine sono ideali. Rispetto ai robot tradizionali, sono molto più facili e rapide da programmare».



[h=1]robot ci ruberanno il lavoro? Guarda cosa
fanno oggi e cosa faranno[/h] Chef, anestesisti, guide contabili e segretarie: in tutte le professioni ci sono conoscenze replicabili con un algoritmo. Il risultato? Più innovazione e competenze umane sofisticate e più produttività, ma sempre meno posti
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Un software lavorerà al posto nostro Un giorno, in un futuro non troppo lontano, questo articolo potrebbe essere scritto da un robot. Non è fantascienza. Già fin d’ora alcun importanti editori usano software per automatizzare la stesura di rapporti giornalistici. Il Los Angeles Times per esempio è un pioniere nel «robo-giornalismo»: il giornalista e programmatore Ken Schwencke ha creato un algoritmo che automaticamente genera un breve articolo appena avviene un terremoto, basandosi sui dati del servizio geologico degli Stati Uniti. E l’agenzia internazionale di notizie Associated press (Ap) nel solo ultimo anno ha pubblicato ben 3 mila articoli «scritti» da robot sui bilanci aziendali trimestrali: contengono meno errori e liberano tempo perché i reporter in carne e ossa possano dedicarsi ad analisi più complesse, dicono i manager di Ap.






Appena sotto di loro, nella classifica dei mestieri a rischio di estinzione, ci sono i contabili che preparano i documenti per le tasse (98,7%): sono già in commercio pacchetti di software con cui i comuni contribuenti possono farsi da soli la dichiarazione dei redditi. I bancari allo sportello sono sempre meno indispensabili grazie agli apparecchi Bancomat e ai conti online (98,3%), ma nemmeno chi, nell’industria finanziaria, ha una professionalità sofisticata può sentirsi al sicuro. I robo-consulenti infatti sono già una realtà: servizi completamente automatizzati di analisi della situazione finanziaria di un risparmiatore, che grazie ad enormi banche dati ed algoritmi elaborano proposte di investimento personalizzate.
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Saya e l’automa con il kimono Oltre agli algoritmi che possono sostituire lavori impiegatizi, anche nel settore degli servizi avanza l’automazione, con l’uso non solo di software ma di robot umanoidi. Vi ricordate Rosie, il robot casalinga della famiglia Jetson (i «Pronipoti» dei cartoni animati di Hanna-Barbera Anni Sessanta)? Qualcosa di simile lo trovate nei negozi giapponesi dove «lavora» ChihiraAico, l’automa in kimono creata da Toshiba, capace di dare il benvenuto ai clienti con frasi standard, sorridere e persino cantare; oppure, sempre in Giappone, negli uffici dove al ricevimento c’è la «segretaria Saya», capace di condurre una conversazione semplice sulla base delle 300 parole e delle 700 frasi del suo vocabolario. Servizi Nella Silicon Valley a Cupertino c’è poi un albergo, l’Aloft, dove il servizio in camera è a cura del robo-fattorino Boltr. In Cina alcuni ristoranti usano robot al posto sia degli chef sia dei camerieri. E persino negli ospedali l’automazione è sempre più praticata: l’autorità americana nel campo alimentare e farmaceutico, la Fda (Food and drug administration) ha dato l’ok a Sedasys, un sistema creato da Johnson & Johnson per somministrare anestesie leggere al posto degli anestesisti, che sono i professionisti più cari nelle sale operatorie.



La nuova manifattura Intanto in fabbrica sta prendendo piede una seconda generazione di robot, più intelligenti, più agili, più collaborativi, più adattabili, ha spiegato il WSJinun’inchiesta. Li usano soprattutto i produttori di automobili, ma non solo. Quelli costruiti dall’americana Rethink robotis e dalla svizzera Abb, per esempio, aiutano gli operai ad assemblare piccole componenti di prodotti dell’elettronica di consumo: abbassando i costi di assemblaggio, il loro impiego potrebbe servire a riportare negli Usa e in Europa lavorazioni fatte oggi in Cina. Ma è illusorio pensare che le nuove tecnologie nell’industria manifatturiera possano riportare anche posti di lavoro nei Paesi occidentali, sostiene Martin Neil Baily, economista del pensatoio di Washington Brookings institution ed ex presidente del Consiglio dei consulenti economici della Casa Bianca sotto Bill Clinton. Dei 5,7 milioni di posti di lavoro persi negli Anni 2000 nella manifattura negli Usa, solo 870 mila sono tornati in questo decennio. La «nuova» manifattura sarà cruciale per il futuro dell’economia americana e dei Paesi avanzati – spiega Baily – «non per la capacità di creare posti di lavoro, ma per il suo potenziale di spingere l’innovazione e la crescita della produttività e per il suo ruolo nel commercio e nella competitività internazionali». I leader sia industriali sia politici devono sostenere questa tendenza, secondo lui, anche se significa mettere ancor più robot al posto di lavoratori.



[h=2][/h] 5.
I «cobot» che piacciono alle piccole aziende Ecco s’avanza uno strano robot: non è rinchiuso in una gabbia, come gli automi tradizionali, ma lavora fianco a fianco all’operaio. Si chiama robot collaborativo, o, come dicono gli americani, cobot. E’ una nuova generazione di meccatronica leggera, che, grazie al costo inferiore e ad altre virtù, sta aprendo nuovi mercati e nuove applicazioni al di là dell’industria dell’auto e dei semiconduttori, dove la robotica è di casa da decenni. E, aspetto forse più interessante, si sta diffondendo rapidamente nelle piccole e medie imprese, di cui l’Italia è ricca. Esempi Cascina Italia, azienda avicola della provincia di Bergamo, utilizza cinque cobot per riporre negli scatoloni le confezioni di uova preparate dagli addetti alla linea. «Si adattano molto bene alla nostra dimensione – dice Ruggero Moretti, alla testa del gruppo alimentare da 80 milioni di euro cui Cascina Italia appartiene — innanzitutto per il prezzo: 25 mila euro contro le centinaia di migliaia dei robot classici». Beta Utensili — un’azienda monzese con 500 dipendenti e 13 mila articoli in catalogo (dalla chiave inglese alla pistola ad aria compressa del gommista) – li utilizza nel processo di ceratura: quando s’immerge la punta del cacciavite in una speciale cera bollente per far sì che resti nera ed evitare che sia cromata come il resto dell’utensile. «Grazie ai cobot – dice Davide Negroni, che si occupa di produzione sotto la guida di Dante Vismara – abbiamo ridotto del 75% i tempi di alcune operazioni, risparmiato sui materiali e destinato la manodopera a lavori meno usuranti e di controllo».



Un «cobot» in azione in un’azienda agricola
[h=2][/h] 6.
Dalle auto alle schede elettroniche La nuova automazione low-cost, oggi il 10% della robotica italiana ma in forte crescita, non è però soltanto pane per denti piccoli. La Magneti Marelli, nella produzione degli inverter (generatori elettrici per auto ibride), usa i cobot di fascia più alta per manipolare le schede elettroniche e montarle sui prodotti lavorati. Un’operazione che richiede estrema precisione, perché la scheda è un oggetto molto fragile. Mentre la Daimler impiega automi dello stesso tipo per assemblare grandi componenti della vettura, come i sedili e il volante. Sono macchine pericolose? «No – rispondono Giovanni Legnani e Antonio Visioli, professori d’ingegneria all’Università di Brescia e organizzatori di una giornata di studio per le associazioni di settore Anipla e Siri —: i cobot incorporano dispositivi che li bloccano quando entrano in contatto con l’uomo; in ogni caso la normativa internazionale impone limiti precisi di peso, velocità e potenza». Questo rassicura solo in parte alcuni imprenditori, che, pur interessati ai vantaggi della nuova tecnologia, temono ispezioni delle Asl se non proprio il blocco degli impianti.



[h=2][/h] 7.
Vuoi fare il meccatronico? Pericoli a parte, la diffusione dei robot collaborativi pone comunque ai produttori e agli utilizzatori due problemi. Il primo è di competenze. Servono meccatronici e programmatori, sia periti che ingegneri, spiegano Legnani e Visioli. Che conoscano bene gli automi e, altrettanto bene, le operazioni da automatizzare. Il secondo problema, più sociale, è l’accettazione da parte dei colleghi lavoratori. «Molto dipende dalle capacità organizzative dell’imprenditore — dice Alberto Pellero, direttore dello sviluppo strategico di Kuka Robotics Italia —; la strada giusta è puntare, oltre che al taglio dei costi, a innalzare la qualità. In questo caso ai cobot, che notoriamente non si lamentano mai, si affida la parte più faticosa e ripetitiva del lavoro, mentre le mansioni umane vengono arricchite di contenuti professionali di più alto valore». In questo mercato ha fatto ingresso anche il colosso Abb, che ha appena lanciato un suo modello (YuMi) all’Expo di Milano. «In Italia – dice Oscar Ferrato, business developer della multinazionale – prevediamo risposte positive perché queste macchine, estremamente flessibili, diventano convenienti a volumi bassi e alta varietà di prodotti, dunque sono perfette per la piccola e media impresa». E Fabio Facchinetti, dell’azienda italiana che distribuisce i prodotti di Universal Robots e altre case (Alumotion), aggiunge: «Quando, come spesso accade, i lotti produttivi sono piccoli e la produzione richiede zero difetti, queste macchine sono ideali. Rispetto ai robot tradizionali, sono molto più facili e rapide da programmare».







VE chi ha investito nelle azioni robotiche ha guadagnato il 483% Se l’interazione tra uomo e macchina pone una serie di questioni sociali e culturali molto complesse, la domanda degli investitori è più semplice: vale già la pena scommettere sulla robotica? Nel 2014 sono stati installati 205 mila robot (+15%). Le stime dell’International Federation of Robotics (Ifr) dicono che tra il 2015 e il 2017 questa cifra aumenterà in media a un tasso del 12% su base annua ed entro dieci anni, la spesa complessiva collegata supererà il miliardo di dollari. Tre fattori possono accelerare il processo di automazione: l’aumento della produttività imposto dalla crescente competizione a livello industriale, l’invecchiamento della popolazione che in molti Paesi renderà necessaria una sostituzione uomo-macchina e la convergenza tra costi di produzione robotizzata e forza lavoro umana: dal 2.000 in avanti i salari sono aumentati di circa il 500% in Cina e continueranno a lievitare a un ritmo del 18% l’anno. Sono sufficienti questi dati a trasformare il megatrend della robotica in un buon investimento? Di certo ha dato buoni frutti negli ultimi 10 anni. In questo periodo, l’indice Robo-Stox Global Robotics and Automation sviluppato dalla società Robo-Stox Partners Ltd raggruppando le aziende attive nel settore, ha reso il 483%, oltre quattro volte l’Msci world (seppure a fronte di una volatilità superiore). Quanto basta per alimentare il sospetto che sia una gigantesca bolla pronta ad esplodere. Ma c’è anche chi non è d’accordo. «Non vedo eccessi di euforia sul tema della robotica, né sul fronte dei consumi, né nel dibattito tra investitori», contesta David Borah, nel team d’investimento di The Boston Company am (Bnt Mellon).



ECCO PERCHE STANNO STERMINANDO IL CETO MEDIO,SEMPLICE TRA UN DECENNIO NON NE AVRANNO PIù BISOGNO E ALLORA COSA NE FARANNO DEGLI EXTRACOMUNITARI AFRICANI ?PATATINE FRITTE?
VIVRAI SOLO SE SARAI RICCO.........OPPURE GLI AUTOMI PRENDERANNO IL NOSTRO POSTO ?