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[h=1]Volontario Ong rischia 20 anni in Italia. Conte: 'Non posso intervenire'[/h] [h=2][/h] Il premier Costa solleva il caso. L'attivista si era imbarcato sulla Iuventa e ora è a processo
"Non posso farci nulla". Così il premier Giuseppe Conte avrebbe risposto al collega portoghese Antonio Costa durante il Consiglio europeo di Bruxelles.
L'argomento di discussione è il caso di un attivista portoghese, Miguel Duarte, fermato dalle autorità italiane con l'accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina per aver salvato naufraghi sull’imbarcazione Iuventa, sequestrata nel 2017.
Adesso, secondo i media portoghesi, il 25enne rischia fino a 20 anni di carcere. Per questo motivo, Costa ha chiesto lumi a Conte lamentandosi del fatto che qualcuno possa rischiare la galera per così tanto tempo per "aver salvato vite".
Ma il premier italiano ha spiegato che la magistratura italiana è indipendente e che quindi il governo può fare poco. Quando, due anni fa, è scattato il sequestro della nave "Iugend Rettet" e sono finiti sotto indagine memebri dell'equipaggio, l'Ong urlava alla "criminalizzazione" da parte delle "autorità italiane".
La Iugend Rettet è stata accusata di favorire l'immigrazione clandestina, dopo che il lavoro investigativo aveva documentato "incontri in mare" tra Ong e libici. Nelle prime pagine dell'ordine di sequestro della nave, come rivelato a suo tempo dal Giornale, si leggeva che "membri dell'equipaggio della motonave Iuventa appartenente alla Ong Jugend Rettet in data 18.6.2017 si incontravano in acque internazionali con trafficanti libici a bordo delle rispettive imbarcazioni, quindi facevano momentaneo ritorno presso la motonave Juventa (mentre i trafficanti libici si dirigevano vero le acque libiche), e, da ultimo, si incontravano nuovamente con i trafficanti libici che questa volta scortavano una imbarcazione con a bordo dei migranti che venivano poi trasbordati sulla motonave Juventa e, al termine dell'operazione prelevavano dall'imbarcazione utilizzata dai migranti il motore e facevano ritorno in acque libiche".
[h=1]"Valutopoli" delle toghe. Il 99% è promosso alle verifiche interne[/h] [h=2][/h] Il trucco: l'avanzamento di carriera avviene in base all'autovalutazione dell'interessato
I vertici - a partire dal Consiglio superiore della magistratura - trafficoni e collusi con la politica.
La base - ovvero i novemila magistrati italiani - seri ed onesti, impegnati solo a lavorare in silenzio. È questa la narrazione che sta passando dello scandalo che ha investito la giustizia italiana grazie all'inchiesta della procura di Perugia sul marcio nel Csm. Quadro in larga parte corretto. Ma che non fa i conti con un male cronico della magistratura tricolore: la scomparsa di qualunque forma di meritocrazia all'interno dell'apparato giudiziario, con il sistema delle carriere trasformato in una gigantesca finzione in cui i giudici sono tutti bravi: come se non esistessero anche tra le toghe, come in ogni categoria umana, i fannulloni e gli incapaci.
Che questo appiattimento abbia contribuito a imbarbarire il sistema della rappresentanza istituzionale (cioè il Csm) che sindacale (l'Anm) della magistratura italiana è piuttosto ovvio: se il merito non conta nulla, hanno campo aperto le cordate e le capacità di relazione. E che di appiattimento si debba parlare lo dimostrano le statistiche che proprio sul sito del Csm raccontano come funziona il sistema di avanzamento dei magistrati. Un dato su tutti: negli ultimi dieci anni sono stati «promossi» il 98,22 per cento dei magistrati. Una percentuale siderale, che negli ultimi due anni disponibili (il 2015 e il 2016) ha raggiunto picchi ancora più alti: rispettivamente, il 99,56 e il 99,30 per cento.
Quale organismo possa sopravvivere a una simile prassi di promozioni indiscriminate è una domanda inevitabile. D'altronde se dalle aride cifre si passa alla lettura dei pareri che accompagnano questi avanzamenti di carriera a volte si rasenta l'effetto comico. Nei giudizi che i capi degli uffici consegnano in vista degli esami, i magistrati appaiono tutti come laboriosi, efficienti, profondi conoscitori della materia di cui si occupano. Anche quando si tratta di capre conclamate. Come diceva Francesco Saverio Borrelli: «Di alcuni mi domando non come abbiano fatto a entrare in magistratura ma come siano riusciti a laurearsi».
Questo sistema che rende todos caballeros d'altronde è figlio della cultura sessantottina(COMUNISTA?) che - con qualche anno di anticipo - fece irruzione nella magistratura italiana nel 1966, sopprimendo i concorsi interni e consentendo a tutti i giudici indistintamente di progredire nel grado e nello stipendio unicamente in base all'anzianità. Così i palazzi di giustizia si popolarono di consiglieri di corte d'appello che in realtà continuavano a fare i pretori o a indagare sulle rapinette. Nel 2006 il sistema venne solo apparentemente mutato: sette valutazioni di professionalità successive, una ogni quattro anni, affidate al consiglio giudiziario locale. Sulla carta, un controllo costante della qualità dei magistrati, all'insegna del «va avanti solo chi lo merita».
Ma le cose sono andate diversamente. I consigli giudiziari decidono sulla base dell'autovalutazione del diretto interessato (che è sempre positiva), e del parere del suo superiore diretto. Che tiene conto della produttività ma anche della disciplina, del conformismo, della piaggeria, e di altri umani mezzi di sopravvivenza. Così si spiega quella surreale percentuale del 99,30 per cento di promossi.
Certo, ci sono anche quelli che non ci riescono, che vengono bocciati. Ma si tratta di poche unità all'anno, di casi estremi come il protagonista della storia qua sotto. Che non vengono promossi, ma continuano a fare i giudici.
Manovre nascoste, tentativi di screditare altri magistrati, pretesa di orientare le inchieste e la convinzione di poter manovrare chiunque. È questo il contenuto delle intercettazioni degli incontri tra i magistrati, indagati per corruzione, Luca Palamara e Rocco Stefano Fava. È il 15 maggio, quando Palamara spiega a Fava che la manovra per controllare la procura di Perugia - fa sapere La Stampa- è ormai cosa fatta: "Allora, stammi a sentì... Senza che ti sbilanci con Erminio (Erminio Amelio, candidato al posto di procuratore aggiunto)... la cosa di Erminio la chiudiamo, eh?... So' tutti contenti", poi Fava risponde: "Per Perugia?". E Palamara: "Gli avevano fatto un accenno pure su Frosinone. Ma Frosinone è difficile. E poi con la cosa tua (riferendosi all'esposto di Fava contro Pignatone e Ielo, che nei disegni di Palamara doveva trasformarsi in un procedimento penale contro il suo nemico)... loro erano tutti contenti, che a quel punto lui va con Prete (Francesco Prete, candidato alla carica di procuratore capo di Perugia)». Fava: "Nooo". Palamara: "A Prete gli rompe il culo! E lui almeno sa tutte le carte che ci stanno".
Da dietro le quinte - prosegue La Stampa - Palamara e i suoi hanno sabotato anche la candidatura di Giuseppe Borrelli. "Perché Borrelli non si può nominare, meglio evitare", dice Fava. E Palamara: "Va beh, Borrelli o Prete, quello è un problema che vediamo noi... Comunque, chiunque dei due, con Erminio... non possono fare cazzate... Hai capito che voglio di'... Cioè, se ce sta lui... è lui che gli chiede conto, è l'aggiunto. Il procuratore lo fa Amelio, hai capito?. Lo devi mandare carico con questi qua, nomi e cognomi... questi li devi ammazzare". Dai discorsi di Palamara emerge proprio un coacervo di mosse e contromosse che nulla ha a che fare con la legge e che poco lascia presagire a una possibile innocenza.