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AMERICANI BELLA GENTE.

Alien.

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Esclusivo: "La Marina militare americana ha riversato acqua radioattiva nel Parco marino internazionale delle Bocche di Bonifacio".
Un sottufficiale della Marina militare italiana testimonia.
22 ottobre 2006 - Enrico Porsia
Fonte: amnistia.net | amnistia.net - 12 settembre 2006

Nel settembre 2005 abbiamo incontrato un ufficiale della Marina militare americana che era in servizio presso la base nucleare americana della Maddalena in Sardegna (vedere la nostra edizione del 15/11/2005). Nel corso della nostra lunga conversazione, il militare ci aveva preannunciato, molto prima che la notizia diventasse ufficiale, il ritiro dei sottomarini di attacco dello Zio Sam dall'arcipelago sardo. Un ritiro che dovrebbe essere effettivo nel corso del 2007 (vedere la nostra edizione del 25/11/2005 e del 29/05/2006).
L'ufficiale della Marina ci aveva anche confidato un'informazione allarmante. Aveva affermato che i militari americani effettuavano lo scolo dell'acqua radioattiva contenuta nei reattori dei sottomarini. Questa operazione molto pericolosa, soggetta a rigidi protocolli, era effettuata con surrealistica nonchalance dalla Marina americana nel bel Parco internazionale delle Bocche di Bonifacio. In seguito alla pubblicazione delle
nostre informazioni, il deputato italiano (oggi senatore) Mauro Bulgarelli aveva pubblicamente interrogato il Ministro italiano della Difesa: "Quali i provvedimenti presi durante questa delicatissima operazione?"
L'ufficiale della Marina americana che aveva accettato di parlarci restando anonimo aveva ugualmente affermato che l'acqua radioattiva era stoccata sulla barca di supporto, la Emory Land, in attesa che navi americane, equipaggiate per questo tipo di trasporto, si incaricassero successivamente di portare l'acqua irradiata negli Stati Uniti.
Oggi un sottufficiale della Marina militare italiana in servizio per due anni nell'arcipelago sardo smentisce categoricamente queste parole.
"E' una fesseria" ci dice, "gli americani non hanno mai riportato negli Stati Uniti l'acqua radioattiva dei loro reattori, ma l'hanno sempre riversata in mare, nal Parco marino internazionale!".
"Sono stato in servizio alla Maddalena per due anni" ci racconta il militare italiano che, come il suo collega americano ha accettato di parlarci restando
anonimo- "Ero in servizio alla base italiana di Santo Stefano, che è nelle vicinanze immediate della banchina dove si trovano i sottomarini americani e la nave di supporto logistico Emory Land.
Alcune mattine, sul presto, la Emory Land e un sottomarino nucleare lasciavano l'isola senza
allontanarsi molto perchè la sera erano già di ritorno. Tutti lo sapevano. Gli americani andavano a scaricare l'acqua del reattore... ma, contrariamente
a quanto vi ha detto l'ufficiale americano, l'acqua radioattiva non era nè stoccata in qualche luogo, nè portata negli Stati Uniti. Del resto, in due anni di
servizio nell'arcipelago, io non ho mai visto nè sentito parlare di una nave arrivata espressamente per rimpatriare l'acqua radioattiva dei reattori
negli Stati Uniti. La verità è molto più semplice: l'acqua radioattiva era riversata in mare.
Durante la nostra conversazione, il sottufficiale italiano era in compagnia di un collega, anch'egli sottufficiale che assentiva silenzioso.
"Come militare dovrei tacere, ma la mia divisa non mi impedirà di ricordarmi che sono anche un cittadino. E il cittadino vi dice che è orribile
sbarazzarsi dell'acqua radioattiva in pieno Mediterraneo. E per di più nelle acque territoriali di un paese amico mentre la Marina militare americana
è nostra ospite. E' una vergogna. Ancor più se si pensa che tutti al''interno della Marina militare italiana erano al corrente di queste pratiche.
Lo scolo dell'acqua radioattiva dei sottomarini americani nel Parco marino internazionale era un segreto di Pulcinella. Tutti hanno taciuto, è una
vergogna!".

Nel dicembre 2003, il deputato italiano Mauro Bulgarelli ci diceva senza perifrasi:

"Sapete cosa ci ha risposto il comando del corpo militare italiano quando ci siamo allarmati per il modo in cui vengono stoccate le armi atomiche dalla
Marina americana alla Maddalena? E quando ci siamo preoccupati per le procedure relative allo scarico dei residui radioattivi? Ci hanno risposto: "No
comment. E' un insulto alla nostra sovranità nazionale!".

Nel 2004 il laboratorio indipendente francese della CRIIRAD aveva scoperato un tasso elevato in modo anormale di torio 234 nelle alghe prelevate
in prossimità della base Usa della Maddalena (vedere la nostra edizione del 14/01/2004). Da dove proveniva dunque questo derivato dell'uranio 238?
A tutt'oggi la domanda resta senza risposta.
 
LA radioattività si conclude dopo 24 mila anni...tu ci sarai?questo nel tirreno ed in adriatico?

ADRIATICO: UN MARE PIENO DI BOMBE INESPLOSE U.S.A.

di Gianni Lannes


Armi chimiche: Un’eredità ancora pericolosa. Oltre 30mila gli ordigni inabissati nel mare Adriatico. L’analisi di sei siti inquinati
I siti presi in esame: Lago di Vico, Molfetta, Pesaro, Golfo di Napoli, Colleferro e basso Adriatico. Legambiente: “Un cimitero chimico letale per l’ecosistema e la salute delle persone”

Silenziosi e letali. Sono oltre 30mila gli ordigni inabissati nel sud del mare adriatico, di cui 10mila solo nel porto di Molfetta e di fronte a Torre Gavetone, a nord di Bari; 13mila i proiettili e 438 i barili contenenti pericolose sostanze tossiche inabissati invece nel meraviglioso golfo di Napoli; 4300 le bombe all’iprite e 84 tonnellate di testate all’arsenico nel mare antistante Pesaro. Ci sono poi i laboratori e i depositi di armi chimiche della Chemical City in provincia di Viterbo e l’industria bellica nella Valle del Sacco a Colleferro. Infine sono migliaia le bomblets, piccoli ordigni derivanti dall’apertura delle bombe a grappolo, sganciati dagli aerei Nato sui fondali marini del basso Adriatico durante la guerra in Kosovo. Questi arsenali, prodotti dall’industria bellica italiana dagli anni ‘20 fino alla seconda guerra mondiale e coperti per anni dal Segreto di Stato, continuano a rilasciare pericolose sostante tossiche che da più di ottant’anni causano gravi danni all’ecosistema della Penisola e alla salute delle popolazioni locali.

Legambiente, insieme al Coordinamento Nazionale Bonifica Armi Chimiche, ha fatto il punto della situazione con il dossier “Armi chimiche: Un’eredità ancora pericolosa”, presentato questa mattina a Roma. Oltre al vice-presidente di Legambiente Stefano Ciafani e al presidente Coordinamento Nazionale Bonifica Armi Chimiche (C.N.B.A.C.) Alessandro Lelli, sono intervenuti Enrico Fontana giornalista e direttore di Nuovo Paese Sera, i vice presidenti del C.N.B.A.C Fabrizio Giometti e Matteo D’Ingeo; Luigi Alcaro dell’Ispra; il presidente di Assobon (Associazione Italiana di Imprese di Bonifica da ordigni) Vincenzo Bellei e Giannantonio Massarotti esperto di bonifiche. Tra i partecipanti anche Giorgio Costa (PDL), Roberto Della Seta (PD), David Favia (IDV), Francesco Ferrante (PD), Oriano Giovanelli (PD), Roberto Rao (UDC), Ermete Realacci (PD), Elisabetta Zamparutti (Partito Radicale) e in rappresentanza del Ministero della Difesa, presenti anche gli ufficiali Magg. Gen. Giuseppe Capozzi, Vice Comandante Logistico e capo dipartimento tecnico, e Col. Antonello Massaro Direttore Centro Tecnico Logistico Interforze NBC Civitavecchia.

Nel corso del convegno è stata presentata una mappatura dei siti inquinati dagli ordigni della seconda guerra.

“Si tratta di cimiteri chimici che rilasciano sostanze killer dannosissime come arsenico, iprite, lewsite, fosgene e difosgene, acido cloro solfonico e cloropicerina - ha spiegato Stefano Ciafani, vicepresidente di Legambiente - Per richiedere la bonifica di questi siti e per denunciare queste situazioni, è nato il Coordinamento Nazionale Bonifica Armi Chimiche, al quale ha aderito l’associazione. L’obiettivo – aggiunge - è di promuovere azioni per la difesa dell’ambiente e la protezione contro i rischi derivanti dall’esposizione a sostanze tossiche provenienti dalle armi chimiche e dalla mancata bonifica dei siti civili e militari a terra, nei laghi, nei fiumi e nel mare, in cui queste armi sono state fabbricate o abbandonate. Su questo ci aspettiamo un cambio di passo e un segnale di protagonismo e trasparenza da parte delle istituzioni, a partire dal Ministero della Difesa e dal Parlamento ”.


Il dossier di Legambiente e del Coordinamento Nazionale Bonifica Armi Chimiche si apre con l’analisi dei siti più noti del Lazio e della Puglia: la Chemical City sul lago di Vico (Vt) e il porto di Molfetta e Torre Gavetone a nord di Bari. Nel viterbese il mistero che per decenni ha avvolto la Chemical City, il centro di ricerca e produzione di armi chimiche voluto da Mussolini e attivo fino agli anni ’70, è stato scoperto solo nel 1996 quando un ciclista è rimasto intossicato da una fuga del gas asfissiante mentre erano in corso le operazioni segrete di svuotamento delle cisterne dell’impianto avviate proprio in quell’anno. Solo in quel momento la popolazione, fino allora ignara, ha scoperto la dimensione del problema.

Nel 2000 le autorità militari hanno concluso le operazioni di bonifica dei serbatoi, ma le successive indagini condotte dall’Arpa sui sedimenti del lago hanno evidenziato in alcuni punti concentrazioni di arsenico superiori alla soglia di contaminazione. Per fronteggiare l’inquinamento ancora presente il Ministero della Difesa ha stanziato 150mila euro per i primi interventi di bonifica del sito che stanno partendo in queste settimane.


Invece nel mare pugliese sono stati i lavori di dragaggio del porto di Molfetta a far scoprire la presenza di alcuni ordigni bellici facendo così partire le operazioni di bonifica, che sono ancora in corso. Inoltre occorre accertare la presenza di ordigni nei fondali marini di fronte Torre Gavetone. C’è poi da aggiungere la situazione del basso adriatico dove, oltre agli arsenali chimici dispersi sui fondali durante la seconda guerra mondiale e negli anni successivi alla fine del conflitto, si sono aggiunti gli ordigni inesplosi sganciati nel 1999 dai caccia Nato durante il conflitto del Kosovo. Già nel 2001, in tutta la Puglia, Legambiente con la campagna “Via le bombe da un mare di pace” aveva chiesto la bonifica dei fondali per evitare che fossero i pescatori a fare, involontariamente, durante la loro attività la bonifica dell’area. Ma tutt’ora i lavori di risanamento tardano a partire. L’area è stata oggetto di studio dall’allora Icram, oggi Ispra. Le indagini dell’Istituto hanno accertato la presenza sui fondali di almeno ventimila ordigni con caricamento chimico e le analisi hanno rilevato gravi conseguenze nei pesci causate da sostanze come l’iprite e concentrazioni d’arsenico superiori ai valori soglia nei sedimenti marini analizzati. Dati che testimoniano la presenza del problema e l’urgenza di attività di bonifica, oggi limitate all’area portuale di Molfetta.

Nelle Marche e in Campania ci sono altri siti, individuati da diversi documenti militari, su cui fino ad ora non è stata fatta nessuna indagine accurata per certificarne la presenza, localizzare e quantificare il materiale presente, come l’area marina di Pesaro o del Golfo di Napoli. A Pesaro nel 2010 un gruppo di cittadini ha iniziato a chiedere notizie certe sugli ordigni all’iprite e all’arsenico abbandonati dai tedeschi in mare marchigiano nel 1944 durante la loro ritirata. Nel luglio scorso l’Arpa Marche ha dato il via alla prima campagna di monitoraggio sui sedimenti marini senza riscontrare valori al di sopra delle soglie stabilite. Legambiente e il Coordinamento Nazionale Bonifica Armi Chimiche auspicano che venga nominata una attività permanente d’indagine che coinvolga vari soggetti tra cui Arpam e Università di Urbino, per compiere un monitoraggio costante nel tempo e quindi intraprendere le eventuali azioni di bonifica.





Strage di tartarughe in Adriatico «La causa è ancora un mistero»???
Foto Un esemplare spiaggiato
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Gli esperti: 170 esemplari spiaggiati in poco più di quaranta giorni

Ravenna, 14 novembre 2013 - È L’ANNO nero delle tartarughe. Lo dimostrano i dati — 170 esemplari rinvenuti senza vita dal primo ottobre sulle coste dell’Adriatico, solo 40 due giorni fa nel Riminese — e lo confermano le temperature del mare: due gradi in più rispetto alla media che hanno impedito la migrazione della Caretta Caretta verso i mari del sud.
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Ventisei tartarughe morte ritrovate sulla spiaggia di Rimini

Tutto inizia il 4 ottobre. Il telefono della ‘Fondazione cetacea’ di Rimini squilla. È mattina presto e dall’altro capo della cornetta si sente: «Ho trovato una tartaruga spiaggiata a Ferrara». Alla fine della giornata saranno sette i ritrovamenti. Da allora il centralino della Fondazione non ha praticamente mai smesso di ricevere segnalazioni, fino al triste numero finale (per ora): 170 testuggini, di cui 130 solo nelle coste emiliane-romagnole e le altre distribuite tra Pesaro, Chioggia e la laguna di Grado in Friuli. Le ultime carcasse portano la data rispettivamente di lunedì scorso e ieri.

Al termine della violenta mareggiata che ha colpito la costa dell’alto Adriatico, il mare ha infatti restituito alla spiaggia della provincia di Rimini 40 tartarughe senza vita, 5 a Cesenatico e altre 8 in provincia di Ravenna. In stato di decomposizione avanzato e senza segni particolari derivanti da possibili urti con eliche (tra le cause più comuni), gli esemplari sembrano essere deceduti per la medesima causa, ma su quale essa sia i ricercatori viaggiano tra mille incognite. «Ancora oggi, nonostante le 32 necroscopie effettuate, non riusciamo a definire con esattezza la ragione, o le ragioni, di una tale morìa. Gli spiaggiamenti in questo periodo dell’anno — spiega Sauro Pari, il presidente della fondazione che fa capo alla ‘Rete regionale delle tartarughe marine’ — sono molto comuni, ma quest’anno viaggiamo su dati 5 volte superiori alla media».

NEI GIORNI scorsi le ipotesi più accreditate si erano indirizzate verso la pesca a strascico. Perché? Di solito le tartarughe emigrano a fine agosto, in cerca di mari più caldi, questa volta invece la temperatura dell’acqua è rimasta mite, i cetacei sono restati in zona e quando a inizio settembre è finito il ‘fermo pesca’, le reti a strascico hanno pescato (e ucciso) varie tartarughe. Però per Pari è ancora prematuro considerare il capitolo chiuso e così la ‘Rete regionale’ ha richiesto le analisi di altre 30 testuggini.
Ma da dove arrivano? La Caretta Caretta è una tartaruga che nidifica tipicamente nelle coste ioniche della Calabria e nelle isole del mare Egeo. In pratica in tutte quelle spiagge dove la presenza antropica non è ancora intervenuta a piantare ombrelloni e lettini. In estate, con l’innalzamento del clima, migrano poi verso le acque del nord Adriatico.

Quello che ormai tutti definiscono come ‘il caso delle tartarughe’ è stato il principale protagonista della riunione tenutasi ieri a Padova del ‘Net cet’, il progetto quadriennale di salvaguardia per tartarughe marine e delfini sponsorizzato dalla città di Venezia, a cui collaborano per l’Italia la Fondazione cetacea di Rimini, l’università di Padova, il Wwf, la città di Pesacara e Ispra. «Quello di oggi (ieri, ndr) è stata un’ottima occasione per confrontarci anche con gli studi effettuati sui 21 delfini spiaggiati — commenta Sauro Pari —, ma il responsabile del laboratorio di Legnaro Sandro Mazzariol ha escluso che le ragioni del decesso possano essere le stesse. Staremo a vedere, siamo molto preoccupati».

Alessandro Cicognani


le bombe non centrano nulla?

“Il Coordinamento – ha detto Alessandro Lelli, presidente Coordinamento Nazionale Bonifica Armi Chimiche (C.N.B.A.C.) - riunisce associazioni e comitati locali di alcune delle zone più interessate dall'inquinamento causato dalla presenza di armi chimiche. L’obiettivo è di rafforzare la richiesta di un attento monitoraggio e successiva bonifica dei siti, costituendo un interlocutore nazionale che rappresenti le singole realtà locali. Tra le proposte presentate nell'iniziativa di oggi c'è l'istituzione di una commissione straordinaria che vigili sulle azioni di monitoraggio e bonifica dei siti contaminati da armi chimiche e che fornisca informazioni chiare ed esaustive ai cittadini che vivono nei luoghi interessati dal problema. Solo in questo modo si può avviare il percorso virtuoso che metta fine alla pericolosa eredità delle armi chimiche in Italia”.

Per quanto riguarda il Golfo di Napoli, invece, la situazione è testimoniata al momento da documenti militari americani segreti, di cui sono noti alcuni stralci, che indicano l’area intorno a Ischia come sito di abbandono di bombe chimiche subito dopo la fine della seconda guerra mondiale. Una vera e propria discarica chimica e anche il mare circostante l’isola di Capri non sembra essere esonerato dal problema. Per questo è necessario che le istituzioni competenti si attivino per trovare i mezzi e le risorse economiche per compiere un attento monitoraggio dei fondali e dare il via alle eventuali azioni di risanamento.

Il dossier si conclude con l’analisi dell’industria bellica di Colleferro, in provincia di Roma. Quest’anno ricorre, tra l’altro, il centesimo anno dell’industrializzazione dell’area che dal 1912 ospita anche produzioni belliche dedicate in particolare alla fornitura di tecnologie atte a trasformare armi convenzionali in armi chimiche. Una produzione sempre attiva anche negli anni successivi alla seconda guerra mondiale, come dimostrano alcuni documenti che riportano una correlazione tra la produzione dell’industria bellica di Colleferro e le tecnologie fornite all’Iraq di Saddam Hussein negli anni ‘80. Ancora oggi nell’area continuano le produzioni belliche; mentre per quanto riguarda l’inquinamento sono ancora poche le informazioni pubbliche a causa del segreto militare in una situazione di contaminazione molto complessa dovuta alle tantissime attività che si sono succedute negli anni in tutta la Valle del Sacco. Recentemente l’area è diventata Sito di interesse nazionale da bonificare.

Quello che emerge è dunque un quadro complesso, dove è in gioco la salute di tutti: dell’ecosistema e dell’ambiente. I conflitti bellici hanno lasciato una pesante eredità che deve essere affrontata seriamente attraverso l’impegno di tutti senza nascondere o coprire più nulla.


L’ufficio stampa Legambiente


Nonostante le promesse dei Governi italiani e dei padroni NATO, le bonifiche reali non state effettuate in fondo ai mari d'Italia, inquinati da un numero incalcolabile di ordigni d'ogni genere, con targa anglo-americana.

A distanza di 12 anni, purtroppo, sono costretto a porre in evidenza un'inchiesta, già pubblicata dal settimanale Diario della settimana.

Questo genere di attualità non passa mai, se non in modo tragico sulla pelle dei pescatori. Ancora oggi le cartelle cliniche del lavoratori del mare sono sottoposte a segreto di Stato, come nel caso accaduto recentemente a Molfetta, che ha visto protagonisti involontari alcuni pescatori di una piccola cooperativa, ed il Policlinico di Bari che ha negato il rilascio delle cartelle cliniche agli infortunati in mare, a causa dell'involontario ripescaggio di bombe caricate con aggressivi chimici proibiti dalla Convenzione di Ginevra del 1925.

A parte le bombe all'iprite trasportate a Bari già nel 1943 a bordo di numerose mavi militarizzate, il grosso dell'arsenale è stato affondato al termine della seconda guerra mondiale per occultare le prove di una presenza proibita dalla Convenzione di Ginevra sulle armci chimiche - così attestano gli archivi segreti di U.S.A. e Gran Bretagna - al largo di Manfredonia. Ulteriori riscontri diretti in mare, grazie anche all'ausilio di tanti pescatori locali mi ha consentito di individuare l'ampio cimitero subacqueo che si estende fino a Margherita di Savoia.
 

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