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[h=1]Persi papà, zio e sorella. Non erano fascisti, uccisi perché italiani»[/h] [h=2]Il racconto di Giacomo Crosilla in occasione del Giorno del Ricordo: «Di mio padre Giuseppe non abbiamo saputo nemmeno il nome della foiba in cui è stato gettato»[/h]
di Dino Messina

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Giuseppe Crosilla

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«Eravamo poveri, non eravamo fascisti, ci cacciavano e ci uccidevano perché italiani». Giacomo Crosilla, classe 1934, ieri ha passato il Giorno del Ricordonella sua casa di Trieste: non è potuto andare alle commemorazioni alla foibadi Basovizza, ma il pensiero costante è stato per loro: il padre, lo zio, la sorellamorti per mano titina. La violenza colpì la famiglia Crosilla in tre riprese.«Noi vivevamo a San Vincenti, nell’Istria centromeridionale, oggi Croazia —racconta Giacomo —. Eravamo arrivati all’armistizio dell’8 settembre inrelativa tranquillità, poi venne il ribaltòn, la confusione generale. In Paese trafascisti, partigiani, tedeschi, non si capiva chi comandava. La mia famiglia, aSan Vincenti dall’Ottocento, era disorientata. E dopo la paura venne il terrore.Il primo a cadere fu mio zio Armido, fruttivendolo: fu catturato dai titini ecome un altro centinaio di italiani gettato senza processo nella foiba diPisino».


[h=5]La tragedia[/h]
Alla violenza seguiva una violenza maggiore. «Io ero chierichetto — continuaGiacomo — e mi capitava di partecipare ai funerali di poveretti fucilati nellerappresaglie dei nazisti. Accompagnavamo alla sepoltura in uno spettralecorteo funebre dei corpi ammucchiati sui cassonetti dei camion». Ma ilpeggio, per la famiglia Crosilla, doveva ancora venire. La mattanza più grandesi verificò infatti nella primavera del 1945, quando nel resto d’Italia sicominciava a sperare o addirittura si esultava per l’avvenuta Liberazione,nelle terre dell’Istria era il tempo del dolore. E a San Vincenti, uno dei primi afinire nelle maglie dei partigiani di Tito fu Giuseppe Crosilla, 47 anni,calzolaio, sposato con Maria, padre di Giacomo e quattro ragazze più grandiche avevano già lasciato casa. «Erano le 21.30 del 16 marzo 1945, quandovennero a bussare. Eravamo già a letto. Una voce disse: aprite, siamo fascisti.Avevamo capito che invece si trattava di titini. Scendemmo tutti nell’ingresso,io avevo undici anni e stavo vicino a mia madre. Uno dei titini si rivolse a miopadre in dialetto: Bepi, devi seguirci. Mio padre estrasse dalla tasca l’orologio,me lo consegnò e ci salutò. Poi uscì con i suoi carcerieri. Aveva un femorerotto e uscì dalla porta appoggiandosi alle stampelle. È questa l’ultimaimmagine che ho di lui».






[h=5]L’attentato[/h]
«Era quasi arrivata la primavera, ma quella sera tirava un vento gelido e dopoalcuni minuti, quando già eravamo rintanati in camera da letto, tornarono abussare. Mia madre temette che fossero venuti a prendere anche lei, ma ititini ci dissero che volevano soltanto il cappotto di mio padre. Glieloconsegnai, mentre la mamma si nascondeva». Cominciò il tempo dell’attesa:passavano i giorni, ma di Bepi Crosilla non arrivavano notizie. «Ogni tantoqualcuno del paese ci rassicurava: tornerà presto. Invece di mio padreGiuseppe non abbiamo saputo nemmeno il nome della foiba in cui è statogettato. Ancora oggi uno dei dolori più grandi è non poter deporre un fioredove è morto». Il terzo atto della tragedia si svolse il 18 agosto 1946, quandoci fu un attentato durante una gara di nuoto a Vergarolla. «Nell’esplosione —dice commosso Giacomo — con altre decine di persone rimase uccisa anchemia sorella Adelina. Aveva 23 anni». Alla fine del 1946 i Crosilla sitrasferirono a Trieste. «Io avevo perso alcuni anni di scuola — concludeGiacomo — ma potei recuperare perché nel 1947 fui accolto a Pesaro nelcollegio Zandonai fondato da padre Pietro Damiani. Restai lì per sei anni finoal diploma da geometra. L’Italia non si comportò bene con noi, dimenticatiper sessant’anni, a volte trattati con ostilità quando avevamo bisogno. Lanostra casa di San Vincenti era stata sequestrata. Mai nessuno ci ha risarciti».


10 febbraio 2018 (modifica il 10 febbraio 2018 | 23:23)
 

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