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Molta gente sostiene che l'agricoltura biologica è una moda non sapendo di ripetere a pappagallo uno slogan elaborato dagli spin doctor delle multinazionali. Qualcun altro dichiara invece di comprare solo alimenti industriali ordinari in quanto costano meno mentre il biologico è solo una trovata pubblicitaria. Io penso invece che è meglio avere dei dubbi sulla genuinità del biologico piuttosto che mangiare cibo sicuramente contaminato dal glifosato (ormai in tutta la catena alimentare) e altri veleni. Certo, il biologico oltre a essere caro non è sempre della stessa qualità (esistono diverse categorie) e non si possono escludere truffe ma quando conosci gli effetti dei pesticidi cerchi di fare del tutto per evitare di averli nel sangue (in media ne abbiamo tutti almeno 4-5 diversi tipi), soprattutto quando sai che ormai una donna americana su tre presenta tracce di glifosato nel suo latte materno (non esistono studi sulle donne italiane in maternità). Ciononostante, l'industria dichiara che se tutti passassimo al biologico non ci sarebbe sufficiente produzione alimentare per sfamare il mondo ma gli ultimi studi sulle migliori tecniche di coltivazione bio hanno dimostrato che la differenza di produzione si attesta intorno a un modesto 8% (una percentuale irrisoria rispetto a quella degli sprechi). Peraltro, nella maggior parte dei casi, i costi degli alimenti bio possono essere abbattuti fino al prezzo del cibo industriale (e d'importazione) tagliando la grande distribuzione e adottando il modello della filiera corta fortemente osteggiato dai globalizzatori. Non si tratta di un'utopia ma di una scelta obbligata per il nostro futuro perché il vecchio sistema di sfruttamento agroalimentare oltre ad avere inquinato l'acqua, l'aria e la terra, sta provocando una catastrofe sulla salute pubblica. Secondo i dati ufficiali infatti, oggi una persona su tre è destinata ad ammalarsi di cancro nel corso della sua vita mentre nei prossimi anni l'incidenza aumenterà fino a 1 su 2. Il cancro come conseguenza di una predisposizione genetica rappresenta meno del 5% e ciò significa che più del 95% dei casi scaturisce dall'inquinamento e da una cattiva alimentazione. Se c'è ancora qualcuno convinto che il bio sia solo una moda come sostiene l'industria (e l'immancabile Bruno Vespa), può dare un'occhiata a questo servizio.....
 
06/11/2017 – “L’arte del pastaio italiano è miscelare grani italiani con quelli stranieri. L’Italia per tradizione non è stata mai autosufficiente tanto che importiamo grano straniero dal 1800”. Paolo Barilla, presidente dell’Associazione delle industrie del dolce e della pasta italiane e vicepresidente dell’omonimo gruppo, interviene a Petrolio nella puntata dal titolo “Cosa si mangia” in onda sabato 4 novembre in seconda serata su Rai 1. Nell’intervista di Duilio Giammaria, l’imprenditore spiega i motivi per i quali gli industriali italiani comprano grano dall’estero ed entra in una questione di scottante attualità, l’utilizzo del Glifosato nella coltivazione del frumento estero. “Sull’importazione di grano in Italia c’è un discorso quantitativo, dobbiamo importare il 30% di grano dall’estero, e anche qualitativo perché noi importiamo un grano di qualità superiore rispetto alla media nazionale.

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L’agricoltura italiana ha una parte di prodotto eccellente, intorno al 10%, il 30-40% è un buon prodotto, il resto, a secondo delle annate, meno”. Sui 100 mila ettari di frumento in meno coltivati in Italia nel 2017, secondo le stime di Coldiretti, Paolo Barilla spiega che l’agricoltura italiana non è sincronizzata con il sistema industriale. “Spesso si semina di più una qualità di grano che ai pastai non serve per fare quella qualità eccellente come, invece, avviene in Francia dove non si semina un chilo in più di quello che serve alla produzione. Per questo stiamo facendo contratti di filiera attraverso i quali programmare insieme all’agricoltore una produzione per 3, 4 anni dove chi coltiva trova soddisfazione e noi abbiamo un prodotto eccellente. Noi chiediamo quantità e qualità”.

Sulla questione del Glifosato, il diserbante che l’Unione Europea vorrebbe progressivamente eliminare dalla coltivazione del frumento, la posizione di Paolo Barilla è netta. “Per l’industria tutto dipende da che tipo di prodotto produrre e a quali costi, perché se noi dovessimo fare un prototipo di pasta perfetta, in una zona del mondo non contaminata, senza bisogno di chimica, probabilmente quel piatto di pasta invece di 20 centesimi costerebbe due euro. Una pasta a “glifosato zero” – aggiunge il vicepresidente dell’omonimo Gruppo – è possibile ma solo alzando i costi di produzione. Si sta dando molta enfasi a qualcosa che non è un rischio – spiega Paolo Barilla – noi rispettiamo le norme, la nostra filosofia d’impresa ci impone anche un ulteriore principio della cautela che realizziamo attraverso i nostri controlli. Detto questo, per arrivare ai limiti previsti dalla legge bisognerebbe mangiare duecento piatti di pasta al giorno”.



Delicato è anche il discorso sull’etichettatura che il Mipaaf chiede a Bruxelles e che prevede di indicare sulla confezione la presenza o meno di grano italiano. “Nello spirito siamo d’accordo perché siamo per la trasparenza delle informazioni, il problema è che non possiamo prevedere che tipo di miscela daremo quel giorno – precisa Paolo Barilla -. Un paradosso di questa situazione è che potrebbe accadere che un distributore straniero compra un grano di bassa qualità italiana, fa la pasta cento per cento italiana ma di qualità scadente. Questo sarebbe un autogol per il nostro Paese”. (Agenpress)


BARILLA E VIVI FELICE.
 

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