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GRECIA L'ITALIA FA UGUALE (I POLITICI)

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Caos Grecia: la testimonianza di un blogger greco

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DI PANAGIOTIS GRIGORIOU
greekcrisis.fr
La fine dell’autunno in Grecia è caratterizzata dall’intensificarsi dei flussi migratori in ingresso, non più solo nelle isole, ormai sature, ma direttamente sul continente. Sono giovani, in forze, dotati di cellulare, spesso inviati direttamente dalla Turchia, con evidenti finalità di destabilizzazione del mai amato vicino ellenico.
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La propaganda dilagante non ferma le reazioni popolari, che si fanno sentire un po’ ovunque, a
nche perché le disposizioni (ufficiali e non) dicono in sostanza che i nuovi arrivati devono venire prima dei greci in tutti gli ambiti di intervento pubblico (alloggi, sussidi, cure sanitarie, etc). L’impoverimento dei greci è tale che i villaggi sono ormai spopolati e molti non reclamano neppure i morti negli ospedali, per non doverne pagare la sepoltura.

Le commemorazioni della rivolta studentesca del 1973 sono occasione di passerella per Tsipras e Varoufakis, ma nel mondo reale la gente subisce aggressioni e violenze dai nuovi arrivati e si organizza: gli alberghi cominciano a non volerli più ospitare (nonostante i rimborsi statali). E’ come un’invasione, ma senza colpi di arma da fuoco, almeno per ora: più di uno prevede che molti dei migranti entrati in questi mesi si “attiveranno” nel momento in cui la Turchia deciderà di passare all’azione per un attacco militare vero e proprio.
Intanto anche registi famosi come Costa-Gavras si prestano ad operazioni agiografiche verso il potere, facendo uscire il film ispirato al libro “Adulti nella Stanza” di Varoufakis. Da leggere per intero la lettera di Zoe Konstantopoúlou che presiedeva, all’epoca, il Parlamento Greco, che smonta la versione autoassolutoria dell’autore, secondo cui non ci si poteva opporre ai memoranda “Una lettura della storia che mostra quello che è successo nel 2015 come unico risultato del comportamento estremo dei creditori (…) è una lettura falsa.
I creditori si sono comportati in modo criminale, spietato, che ricorda un colpo di stato. E’ un dato di fatto. Purtroppo, il governo greco e i responsabili delle trattative con i creditori hanno reso loro le cose più facili. Non si erano preparati, il loro lavoro era sommario e superficiale. E se alcuni pensano di aver capitolato perché non erano preparati, la mia convinzione, sulla base dei fatti che ho vissuto, è che hanno scelto di non prepararsi perché avevano accettato di capitolare”.
E infine, come sempre a fine anno, Panagiotis Grigoriou apre una sottoscrizione straordinaria, ormai non solo più per esigenze specifiche del blog, ma anche per il sostentamento materiale del suo autore. La pagina è QUESTA

Giovedì 14 novembre 2019
Da “C’è un passaggio e… Pasarán” – articolo originale QUI
 
I migranti assediano i residenti: adesso la Grecia rischia il caos

Nella "Lampedusa greca" decine di migranti in piazza hanno provato a raggiungere il centro abitato, scontri con la polizia. Sull'isola situazione al collasso, il governatore ha chiesto lo stato d'emergenza

Mauro Indelicato - Gio, 06/02/2020 - 10:46





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Alta tensione e consapevolezza che, forse, il peggio non è ancora arrivato: sono questi i principali elementi che negli ultimi giorni sono emersi dall’isola di Lesbo, soprannominata la "Lampedusa greca".

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Si tratta infatti del primo punto di approdo dei migranti provenienti dalla Turchia, nonché centro in cui il governo di Atene trattiene coloro che sbarcano e che presentano domanda di asilo. La situazione sembra degenerare giorno dopo giorno e se n'è avuta una dimostrazione tra martedì, quando a Lesbo decine di migranti sono scesi in strada per protestare per chiedere di essere trasferiti da altre parti.
La manifestazione, solo in parte autorizzata, è partita dal campo profughi di Moria. Qui, come da mesi denunciano le autorità locali, in una struttura in cui potrebbero essere ospitate al massimo tremila persone, al momento ne sono presenti più di ventimila.
La protesta dei migranti è degenerata pesantemente: alcuni di loro hanno provato a raggiungere il paese di Lesbo, testimoni raccontano di lanci di pietre contro la polizia e slogan contro gli abitanti locali. Da Atene erano già arrivati alcuni reparti antisommossa, altri ne sono stati inviati nei giorni successivi. Per diverse ore, barricate lungo le strade e sassaiole contro le forze dell'ordine hanno costituito lo scenario in cui è andata avanti la quotidianità nella parte dell'isola vicina al campo profughi.

Il governatore delle isole del mar Egeo settentrionale, Konstantinos Moutzouris, ha chiesto al governo greco di dichiarare lo stato d’emergenza. Questo perché, secondo lo stesso governatore, quanto avvenuto martedì potrebbe rappresentare solo un’anticipazione di quello che potrebbe accadere nei prossimi mesi.
I numeri forniti da Konstantinos Moutzouris appaiono del resto allarmanti: attualmente, nei campi delle isole dell’Egeo sono presenti 42mila migranti partiti dalla Turchia, distribuiti soprattutto tra Lesbo, Chios e Samos. Il vero problema al momento, è che il flusso appare inarrestabile: giorno dopo giorno, diversi barconi giungono sulle isole greche ingolfando ulteriormente la macchina dei soccorsi e dell’accoglienza.
Del resto, com’è noto, la Grecia è già alle prese con le conseguenze della crisi economica che si trascina dal 2010 ed Atene non è in grado di sobbarcarsi l’onere del flusso migratorio riguardante il Mediterraneo orientale. Il premier Kyriakos Mitsotakis, all’indomani del suo insediamento a luglio, ha promesso un giro di vite volto ad accelerare le procedure per le richieste d’asilo in modo da iniziare a rendere meno pesante la pressione sulle isole. In particolare, tra respingimenti e trasferimenti nella Grecia continentale, si era calcolata la fuoriuscita da Lesbo e dalle zone vicine di almeno 25mila migranti. I continui arrivi, inarrestabili da questa estate dopo un periodo di relativa quiete, stanno impedendo la piena realizzazione del piano voluto dal governo.

Per adesso, il governo greco ha deciso di non dichiarare lo stato d'emergenza. Tuttavia, in parlamento nella giornata di ieri è stato votato un decreto che introduce alcune strette per le
Ong impegnate nel mar Egeo. In particolare, tutte le organizzazioni adesso sono tenute ad avere un registro dei dipendenti ed a rendere maggiormente trasparente il proprio operato.
La questione ovviamente è anche politica. La Grecia, come si sa, è ai ferri corti in questi mesi con la Turchia per via di tanti dossier aperti: dalle rivendicazioni di Ankara sul gas cipriota al memorandum turco – libico firmato a novembre che, tra le altre cose, prevede nuove Zee in grado di tagliare fuori Atene dalle rotte commerciali del Mediterraneo orientale. Il fatto che i migranti arrivino dalla Turchia, dimostra come probabilmente le autorità del paese anatolico abbiano iniziato a chiudere un occhio sul traffico di esseri umani che ha base lungo le proprie coste.

Del resto, Recep Tayyip Erdogan non ha mai fatto mistero della volontà di usare i flussi migratori come arma per minacciare non solo la Grecia ma l’intera Europa. La Turchia ha al suo interno almeno 3.6 milioni di profughi siriani, per trattenere tutti all’interno del paese l’Unione Europea ha stretto nel 2016 un accordo con Ankara da tre miliardi di Euro all’anno.
Questo fa sì che il vecchio continente rimanga sotto il costante ricatto di Erdogan, il quale già da qualche mese, proprio in relazione alla vicenda degli idrocarburi ed alle critiche europee della sua missione anti curda in Siria, ha mostrato insofferenza verso Bruxelles. Ed i flussi migratori che attanagliano la Grecia attualmente, potrebbero rappresentare solo una prima dimostrazione delle possibilità in mano al presidente turco di destabilizzare ulteriormente la situazione.

CREDO CHE SE NON SI VA ALLE ARMI SIAMO PERDUTI PER SEMPRE -LA BULDRINA SARA FELICE-


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QUESTI SONO I NUOVI CAVALLI DI "TROIA" AMEN
 
Sarà il caos’, la crisi dei migranti raccontata in prima persona

Abbiamo intervistato i registi (italiani) del film HBO, che sarà trasmesso su Sky Atlantic a partire dal 7 ottobre.

Di
MARIO BONALDI
Mario Bonaldi




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Un gruppo di migranti guarda il tramonto sull'isola di Lampedusa. Immagine da "Sarà il caos".
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Che la crisi dei migranti sia un evento epocale che riguarda ognuno di noi, e va al di là di questioni politiche legate a consenso e promesse elettorali all’interno dei singoli Stati, è un concetto che in Italia, ma non solo, oggi si fa fatica a sostenere – qualsiasi riferimento all’attuale governo a trazione giallobruna non è casuale.

Per questo un film come Sarà il caos – It Will Be Chaos – prodotto dal network americano HBO e diretto dai registi italiani (ma di base a New York) Lorena Luciano e Filippo Piscopo, che sarà trasmesso su Sky Atlantic nel ciclo ‘Racconti del reale’ a partire da domenica 7 ottobre – appare oggi così urgente.
Il documentario (premio per la miglior regia all’ultimo Festival di Taormina), girato nel corso di cinque anni, racconta la tragedia di una parte di mondo costretta a muoversi per sopravvivere altrove, e dell’impatto che ciò ha sulle comunità locali e sulle istituzioni chiamate ad affrontare questa emergenza. E lo fa dal basso, attraverso un cinema “ad altezza d’uomo”, che si concentra in particolare su due storie e due scenari diversi.
Da una parte c’è Aregai, eritreo sfuggito alla dittatura nel suo Paese che, caricato su un barcone dai trafficanti libici, affonda nella notte del 2 ottobre 2013 a poche centinaia di metri da Lampedusa – il naufragio, di cui questi giorni ricorre il quinto anniversario, che è costato la vita a 364 connazionali di Aregai, compresi i tre cugini con qui aveva intrapreso il lungo viaggio.
Più a est, a Izmir, in Turchia, in un contesto solo apparentemente meno drammatico, ci sono i siriani Wael e Doha, marito e moglie, che cercano di portare i quattro figli lontani dalla devastazione di Damasco e verso la Germania, attraverso l’estenuante e incerta rotta dei Balcani. Questa parte è forse la più interessante del film, perché racconta un aspetto meno conosciuto del fenomeno migratorio, ma non meno doloroso. Negli occhi di questa coppia di genitori che fa di tutto per nascondere la propria angoscia ai figli c’è una lezione per tutti: per chi ha smesso di riconoscere per reale il dolore degli altri e per chi, pur avvertendone l’ingiustizia, si sente impotente verso l’attuale situazione. Abbiamo intervistato i registi del film.
Come siete riusciti a ottenere la fiducia della famiglia siriana, e percorrere con loro la rotta balcanica?
FP: Ci è arrivata la notizia di questa famiglia che si trovava in Turchia, in attesa di trovare un passaggio in mare verso la Grecia, quando stavamo già montando la parte italiana del film. Un nostro contatto che lavora alle Nazioni Unite, Sara Bergamaschi, ci ha messo in contatto con queste persone, che erano disponibili a farsi seguire e filmare. Abbiamo deciso al volo e siamo partiti immediatamente. Loro non ci potevano certo aspettare.
LL: Non si trattava di una situazione facile. Siamo abituati a girare in un modo molto discreto, e in questo caso l’aspetto più difficile era rispettare la tensione e l’angoscia di questa famiglia. L’idea era quella di documentare in modo intimo la loro lotta, per farne emergere la condizione universale. E infatti a un certo punto la videocamera è come sparita. È stato un modo di girare embedded: abbiamo viaggiato con loro su e giù da treni e autobus, attraversato corridoi umanitari e dormito nei campi per rifugiati. Sul momento non ce ne rendevamo conto, ma trovarsi in mezzo a una massa di persone che sta migrando è stato davvero provante, a livello emotivo. Non si trattava soltanto di siriani, ma anche iracheni, pakistani, afghani. I siriani ci dicevano: “Pensavamo di essere solo noi, in fuga”.
FP: Girare è stato complicato, perché non c’era tempo di fermarsi per ricaricare le batterie o copiare il girato sui dischi esterni. Ma a livello umano è stata un’esperienza importante.
Ma non siete saliti sulla barca che dalla Turchia porta la famiglia in Grecia, vero? Lì si capisce come il mare sia implacabile, e ogni viaggio possa diventare mortale in un attimo.
FP: No, perché avremmo messo in grande difficoltà la famiglia siriana, riprendendo la traversata e gli scafisti.
LL: Abbiamo avuto accesso a tutto, tranne che ai momenti in cui la famiglia ha a che fare con gli scafisti. Avevano paura, comprensibilmente, che questi si vendicassero su di loro o sui bambini.
Il film si intitola Sarà il caos. Da quando è partito il progetto fino a oggi ci siamo arrivati, a questo caos?
LL: Quando abbiamo deciso di fare questo film, siamo andati dove stavano andando tutti, a Lampedusa. Lì abbiamo capito che tutti raccontavano sempre la stessa storia: prima si vedono immagini di barche cariche di persone. Poi immagini di persone che occupano i porti di luoghi di sbarco come Lampedusa o Pozzallo. Poi non si vede più niente, si arriva direttamente al politico di turno che dice “Accogliamoli/Non accogliamoli”. Così, quando siamo arrivati a Lampedusa abbiamo capito che non era quella la storia da raccontare. Per un anno abbiamo incontrato e seguito diversi migranti, ascoltato le loro storie, abbiamo parlato con la guardia costiera, con gli avvocati che assistono i richiedenti asilo, con i pescatori, con la gente del luogo… era importante partire da Lampedusa, ma poi spostarsi dall’epicentro della crisi, per fare capire che si tratta di una crisi mondiale, e se non verrà gestita sarà, appunto, il caos. Continuare a investire soltanto su una politica di emergenza e non di gestione non risolverà il problema. Le piccole comunità si trovano da sole ad avere a che fare con numeri improponibili, ma con una politica europea condivisa il fenomeno potrebbe essere tranquillamente governato. Purtroppo il tema dell’immigrazione è uno dei più sensibili in tempi di elezioni, e né a destra né a sinistra i partiti vogliono perdere voti. Nel fenomeno immigratorio viene riversato tantissimo denaro, quindi le risorse per amministrarlo in modo efficiente ci sarebbero. Dare soldi all’emergenza significa destinarli solo alle zone di frontiera, che sia la Sicilia, il sud della Spagna o la Grecia.
Il fatto è che le persone che arrivano in Europa vogliono muoversi, non certo fermarsi alle frontiere.
LL: E infatti il film racconta quello che avviene dopo, quando escono dall’obiettivo delle telecamere. Senza una politica generale di ricollocamento, sono lasciate a se stesse, e devono muoversi come possono tra le pieghe del sistema.
FP: L’unico modo per noi di raccontare questa storia era ricostruire il mosaico con il mezzo cinematografico. Così abbiamo fatto una radiografia di quello che succedeva in Italia, ci siamo allontanati da Lampedusa e siamo andati a Riace (il cui sindaco, Domenico Lucano, fautore di pratiche di accoglienza considerate un modello, è stato da poco arrestato per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, un’accusa per molti pretestuosa, ndr), Falerna, Crotone, Roma, utilizzando come collante i nostri personaggi principali.
Nel frattempo è cambiata la narrazione collettiva. Oggi parlare di accoglienza sembra diventato un tabù nazionale.
LL: Per noi era importante far vedere che solidarietà per tanta gente comune è semplicemente il desiderio di fare qualcosa. Tra città come Roma o Milano e il fronte dell’immigrazione c’è un distacco abissale. Gli abitanti dei luoghi dove avvengono gli sbarchi vivono in prima persona le tragedie, i pescatori trovano i cadaveri in mare, gli abitanti assistono al dolore dei superstiti. Per queste persone la verità è un trauma. Con questo film abbiamo cercato di ricordarlo a tutti.
 

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