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I PARTIGIANI VISTI DA CHI LI HA VISSUTI.

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L RITRATTO

Zeffirelli, il genio abitato da un’ossessione: «Io incompreso perché non ho omaggiato il comunismo»

Il cognome inventato dalla madre, l’amore per Luchino Visconti, le tensioni con la sua città, l’amicizia con Berlusconi. Il passato da partigiano liberale: «Ai comunisti vidi fare cose orribili: mi volevano ammazzare. Non sono cambiati». E i giudizi sui colleghi, da Benigni a Moretti

[IMG2=JSON]{"data-align":"none","data-size":"full","src":"https:\/\/images2.corriereobjects.it\/includes2013\/images\/firme\/schede\/aldo-cazzullo.gif"}[/IMG2]di Aldo Cazzullo[IMG2=JSON]{"data-align":"none","data-size":"full","src":"https:\/\/images2.corriereobjects.it\/methode_image\/2019\/06\/15\/Interni\/Foto%20Interni%20-%20Trattate\/306.0.33154206-k5DG-U31201670018702oZB-656x492@Corriere-Web-Sezioni.jpg?v=20190615141414"}[/IMG2]
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Franco Zeffirelli era un uomo bello, meritatamente ricco, di successo internazionale, ma abitato da un’ossessione: non si sentiva amato ed elogiato dalla critica come era convinto di meritare.

La sua colpa, diceva, era aver rifiutato di spargere il sale davanti alla statua dell’imperatore. «Sa come facevano i primi cristiani, per sfuggire alle persecuzioni? Rendevano omaggio formale al dio in terra; che nella nostra epoca è il comunismo, la sinistra. Prenda Luchino Visconti. Comunista lui? Io l’ho visto licenziare in tronco un cameriere e una cameriera che avevano dimenticato di pettinare i suoi gatti persiani. Intendiamoci: fece benissimo» e qui gli uomini di casa Zeffirelli acceleravano il ritmo di pulitura dei suoi sette cani, «però, insomma, proprio comunista no. Ricordo quando giravamo “La terra trema”. Vivevamo tra gente poverissima, la Sicilia del 1947 era di una povertà medievale. Visconti prendeva il bagno caldo due volte al giorno, la mattina e la sera, nell’acqua profumata con essenza di Penhaligon, il profumo che avrei poi usato per tutta la vita, Hammam bouquet. Francesco Rosi e io, suoi assistenti, restavamo in piedi accanto alla tinozza, a dare il resoconto della giornata e prendere ordini per il giorno dopo. Poi il “comunista” Visconti ci congedava e cenava a letto, servito dal maggiordomo».

Franco Zeffirelli, cinque film imperdibili
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Franco Zeffirelli amava ricevere nell’archivio della sua villa sull’Appia. Marmi, mosaici, colonne facevano pensare alla villa di Capri dove Axel Munthe visse i suoi amori davanti al panorama caro a Tiberio, però Zeffirelli si schermiva: «Macché. Lei dovrebbe vedere piuttosto la mia casa di Positano», già appartenuta a Nureiev e poi venduta a Berlusconi. Negli scatoloni custodiva i segni di una vita senza confronti per varietà di orizzonti artistici e mondiali. Le locandine con le attrici americane e francesi che aveva diretto, da Brooke Shields a Fanny Ardant. Le casse con la scritta: Gesù, Hamlet, Stuarda, Capinera, Callas forever, e anche Inferno («volevo girare la Divina Commedia nelle grotte del Timavo») e Progetto Gerusalemme («l’idea era ricostruire il primo tempio, gli israeliani erano entusiasti, sarebbe stata una grande attrattiva turistica. Poi è scoppiata la guerra»). Altro progetto, San Francesco alle Crociate, a mettere pace tra la cristianità e l’Islam. Da Visconti, però, si doveva partire. Era stato il suo maestro, e il suo amore.







«Non dico abbia sparso il sale per convenienza – diceva Zeffirelli -. Luchino era una sorta di Filippo Egalité, sensibile alle vibrazioni del tempo. Sparse il sale per farsi perdonare di essere nato in una delle famiglie più aristocratiche e più autocratiche, i signori di Milano, imparentati con una delle famiglie più ricche, gli Erba. La responsabilità è pure di Coco Chanel. Visconti era partito per Parigi con i suoi cavalli. Il campione non conquistò Longchamps, ma il padrone, bellissimo, affascinante, conquistò Parigi. Coco Chanel se ne invaghì, visse con lui una storia molto accesa, e gli parlava di continuo di Léon Blum e del Front Populaire. Importante fu anche l’influenza di Jean Renoir, comunistissimo, che volle Visconti come assistente e lo introdusse al cinema, lui che era cresciuto nel palazzo di famiglia con teatro di corte. Altri invece hanno obbedito al Minculpop comunista per opportunismo. Prenda Picasso: miliardario mascalzone, avido, senza nessun riguardo per gli umili, ha accumulato una fortuna senza mai fare beneficenza in vita sua…».







Era colpa dell’egemonia della sinistra sulla cultura – sosteneva — se la sua autobiografia tradotta in dodici lingue non trovava un editore in Italia, se il suo Giovane Toscanini era stato fischiato a Venezia: «Non sarà stato uno dei miei film migliori, però al Festival non attesero neppure di vederlo, cominciarono a rumoreggiare appena sullo schermo apparve il mio nome. Continuarono per tutto il tempo. Alle 3 di notte, mentre ero solo in camera, distrutto dalla rabbia, davanti a una bottiglia di whisky, ricevetti una telefonata. Una voce amica che mi diceva: “Mi vergogno di essere italiano. Dobbiamo salvarli da loro stessi, perché non sanno quello che fanno”». Era Silvio Berlusconi.

Solo una volta Zeffirelli ebbe un coro di consensi. Fu quando girò «Un tè con Mussolini»: la storia della sua infanzia e della sua formazione, a cominciare dal nome. Zeffirelli non esiste. Se l’era inventato sua madre, Alaide Cipriani. Franco si definiva «un figlio dell’amore». Il padre si chiamava Cursi ed era sposato con un’altra donna, quando lo riconobbe era già grande. La madre aveva altri tre figli, un marito in sanatorio e un negozio di moda in piazza della Repubblica. «La mia nascita fu uno scandalo per tutta Firenze — raccontava Zeffirelli —. Mia madre ne morì, quando avevo sei anni. Sono cresciuto con due cugine di mio padre. Tre volte la settimana andavo a lezione di inglese da una signora, Mary ’O Neill, che mi introdusse nel circolo degli anglosassoni di Firenze. C’era una ricca ebrea americana, che in “Un tè con Mussolini” è impersonata da Cher, la quale saldò il conto di mia madre solo dopo la sua morte, e mi consentì di studiare. E c’era la moglie dell’ex ambasciatore britannico a Roma, sino all’ultimo fiduciosa nel fascismo che aveva salvato l’Italia dai rossi. Ero molto legato a un professore di diritto romano che viveva nel convento di San Marco:
Giorgio La Pira. Fu lui a spiegarmi che l’aborto è un crimine e che i totalitarismi, fascismo nazismo comunismo, sono tutti uguali, ma il comunismo è più pericoloso. La Pira non era un pacifista. Fu lui a dirmi di salire sull’Appennino per combattere nazisti e fascisti, ad ammonirmi che bisogna essere pronti a impugnare la spada per difendere Cristo da chi lo nega».







Zeffirelli in effetti è stato un partigiano. Liberale. Che rischiò di essere ammazzato da altri partigiani. Comunisti. «Li vidi fare cose orribili, assassinare un prete solo perché aveva benedetto le salme dei fascisti e gettare il suo corpo nella fossa che usavano come latrina.
Cose che non si dimenticano.
Un giorno pretesero di disarmarci. Ci salvò un gruppo di polacchi fuggiti dal campo di prigionia, che rifiutarono di consegnare i fucili. Altrimenti mi avrebbero sparato alle spalle, com’erano soliti fare, per poi presentarmi come un caduto in battaglia».

(ALLORA SI COMPORTAVANO PEGGIO DEI FASCISTI ?)




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Il maestro non riteneva chiusa la ferita della guerra civile e finita la guerra fredda. «Siamo ancora lì. Non sono cambiati. Hanno distrutto il partito socialista. Impediscono all’Italia di diventare una democrazia normale. Alimentano l’oscenità e la stupidità dei centri sociali, finti ribelli figli di veri ricchi; la penso come Pasolini, un altro che aveva sparso il sale ma fu sempre molto carino con me, grande amico e grande scrittore, anche se non grande regista». Benigni? «Me lo ricordo trent’anni fa: faceva i numeri ai tavoli dei ristoranti romani, almeno quelli gli venivano bene. Non ricordo invece un suo film riuscito, tranne forse “Johnny Stecchino”. Di Moretti non saprei dire, nessuno dei suoi film mi è passato oltre le cornee».

Il suo sogno era fare un film – ovviamente costosissimo - sulla rivalità tra Leonardo e Michelangelo. Poteva passare ore a dissertare sui due Rinascimenti fiorentini: l’esplosione quattrocentesca di Brunelleschi, Donatello, Masaccio; il mistero della stasi medicea; e poi la grande stagione dei primi anni del ’500. Poi si inoltrava nelle differenze tra le attrici americane e delle francesi - le prime esplicite, le seconde conturbanti -, passeggiando nel suo giardino attorno al monumento al cane. Dono di Luchino Visconti.
 
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[h=1]Esecuzioni, torture, stupri Le crudeltà dei partigiani[/h] [h=2][/h]
La Resistenza mirava alla dittatura comunista. Le atrocità in nome di Stalin non sono diverse dalle efferatezze fasciste. Anche se qualcuno ancora lo nega

Giampaolo Pansa - Dom, 07/10/2012 - 12:05
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C’è da scommettere che il nuovo libro di Giampaolo Pansa, La guerra sporca dei partigiani e dei fascisti (Rizzoli, pagg. 446, euro 19,50; in libreria dal 10 ottobre), farà infuriare le vestali della Resistenza. Mai in maniera così netta come nell’introduzione al volume (di cui per gentile concessione pubblichiamo un estratto) i crimini partigiani sono equiparati a quelli dei fascisti.
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Giampaolo Pansa imbastisce un romanzo che, sull’esempio delle sue opere più note,racconta la guerra civile in chiave revisionista, sottolineando le storie dei vinti e i soprusi dei presunti liberatori, i partigiani comunisti in realtà desiderosi di sostituire una dittatura con un’altra, la loro.


Tanto i partigiani comunisti che i miliziani fascisti combattevano per la bandiera di due dittature, una rossa e l'altra nera. Le loro ideologie erano entrambe autoritarie. E li spingevano a fanatismi opposti, uguali pur essendo contrari. Ma prima ancora delle loro fedeltà politiche venivano i comportamenti tenuti giorno per giorno nel grande incendio della guerra civile. Era un tipo di conflitto che escludeva la pietà e rendeva fatale qualunque violenza, anche la più atroce. Pure i partigiani avevano ucciso persone innocenti e inermi sulla base di semplici sospetti, spesso infondati, o sotto la spinta di un cieco odio ideologico. Avevano provocato le rappresaglie dei tedeschi, sparando e poi fuggendo. Avevano torturato i fascisti catturati prima di sopprimerli. E quando si trattava di donne, si erano concessi il lusso di tutte le soldataglie: lo stupro, spesso di gruppo.

A conti fatti, anche la Resistenza si era macchiata di orrori. Quelli che il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ricorderà nel suo primo messaggio al Parlamento, il 16 maggio 2006, con tre parole senza scampo: «Zone d'ombra, eccessi, aberrazioni». Un'eredità pesante, tenuta nascosta per decenni da un insieme di complicità. L'opportunismo politico che imponeva di esaltare sempre e comunque la lotta partigiana. Il predominio culturale e organizzativo del Pci, regista di un'operazione al tempo stesso retorica e bugiarda. La passività degli altri partiti antifascisti, timorosi di scontrarsi con la poderosa macchina comunista, la sua propaganda, la sua energia nel replicare colpo su colpo.

Soltanto una piccola frazione della classe dirigente italiana si è posta il problema di capire che cosa si nascondeva dietro il sipario di una storia contraffatta della nostra guerra civile. E ha iniziato a farsi delle domande a proposito del protagonista assoluto della Resistenza: i comunisti. Ancora oggi, nel 2012, qualcuno si affanna a dimostrare che a scendere in campo contro tedeschi e fascisti e stato un complesso di forze che comprendeva pure soggetti moderati: militari, cattolici, liberali, persino figure anticomuniste come Edgardo Sogno. È vero: c'erano anche loro nel blocco del Corpo volontari della liberta. Ma si e trattato sempre di minoranze, a volte di piccole schegge. Impotenti a contrastare la voglia di egemonia del Pci e i comportamenti che ne derivavano. Del resto, i comunisti perseguivano un disegno preciso e potente che si è manifestato subito, quando ancora la Resistenza muoveva i primi passi. Volevano essere la forza numero uno della guerra di liberazione. Un conflitto che per loro rappresentava soltanto il primo tempo di un passaggio storico: fare dell'Italia uscita dalla guerra una democrazia popolare schierata con l'Unione Sovietica.

Dopo il 25 aprile 1945 le domande sulle vere intenzioni dei comunisti italiani si sono moltiplicate, diventando sempre più allarmate. Mi riferisco ad aree ristrette dell'opinione pubblica antifascista. La grande maggioranza della popolazione si preoccupava soltanto di sopravvivere. Con l'obiettivo di ritornare a un'esistenza normale, trovare un lavoro e conquistare un minimo di benessere. Piccoli tesori perduti nei cinque anni di guerra. Ma le élite si chiedevano anche dell'altro. Sospinte dal timore che il dopoguerra italiano avesse un regista e un attore senza concorrenti, si interrogavano sul futuro dell'Italia appena liberata. Sarebbe divenuta una democrazia parlamentare oppure il suo destino era di subire una seconda guerra civile scatenata dai comunisti, per poi cadere nelle grinfie di un regime staliniano?

Era una paura fondata su quel che si sapeva della guerra civile spagnola. Nel 1945 non era molto, ma quanto si conosceva bastava a far emergere prospettive inquietanti. Anche in Spagna era esistita una coalizione di forze politiche a sostegno della repubblica aggredita dal nazionalismo fascista del generale Francisco Franco. Ma i comunisti iberici, affiancati, sostenuti e incoraggiati dai consiglieri sovietici inviati da Stalin in quell'area di guerra, avevano subito cercato di prevalere sull'insieme dei partiti repubblicani, raccolti nel Fronte popolare. A poco a poco era emerso un inferno di illegalità spaventose. Arresti arbitrari. Tribunali segreti. Delitti politici brutali. Carceri clandestine dove i detenuti venivano torturati e poi fatti sparire. Assassinii destinati ad annientare alleati considerati nemici. Il più clamoroso fu il sequestro e la scomparsa di Andreu Nin, il leader del Poum, il Partito operaio di unificazione marxista. Il Poum era un piccolo partito nel quale militava anche George Orwell, lo scrittore inglese poi diventato famoso per Omaggio alla Catalogna, La fattoria degli animali e 1984. Orwell aveva 34 anni, era molto alto, magrissimo, sgraziato, con una faccia da cavallo. Era arrivato a Barcellona da Londra alla fine del 1936. Una fotografia lo ritrae al fondo di una piccola colonna di miliziani del Poum. Una cinquantina di uomini, preceduti da un bandierone rosso con la falce e martello, la sigla del partito e la scritta «Caserma Lenin», la base dell'addestramento.

Orwell stava sul fronte di Huesca quando i comunisti e i servizi segreti sovietici decisero la fine del Poum. Lo consideravano legato a Lev Davidovic Trotsky, il capo bolscevico diventato nemico di Stalin. In realta era soltanto un gruppuscolo antistaliniano con 10 mila iscritti. L'operazione per distruggerlo venne ordita e condotta da Aleksandr Orlov, il nuovo console generale dell'Urss a Barcellona, ma di fatto il capo della filiale spagnola del Nkvd, la polizia segreta sovietica. Nel giugno 1937, un decreto del governo repubblicano guidato dal socialista di destra Juan Negrin, succube dei comunisti, dichiaro fuori legge il Poum, sospettato a torto di cospirare con i nazionalisti di Franco. Tutti i dirigenti furono imprigionati. Se qualcuno non veniva rintracciato, toccava alla moglie finire in carcere. Gli arrestati si trovarono nelle mani del Nkvd che li rinchiuse in una prigione segreta, una chiesa sconsacrata di Madrid. Interrogato e torturato per quattro giorni, Nin rifiuto di firmare l'accusa assurda che gli veniva rivolta: l'aver comunicato via radio al nemico nazionalista gli obiettivi da colpire con l'artiglieria. Gli sgherri di Orlov lo trasportarono in una villa fuori città. Qui misero in scena una finzione grottesca: la liberazione di Nin per opera di un commando di agenti della Gestapo nazista, incaricati da Hitler di salvare il leader del Poum. Ma si trattava soltanto di miliziani tedeschi di una Brigata internazionale, al servizio di Orlov. Nin scomparve, ucciso di nascosto e sepolto in un luogo rimasto segreto per sempre. E come lui, tutti i suoi seguaci svanirono nel nulla. Quanto accadeva in Spagna fu determinante per la svolta ideologica di uno scrittore americano di sinistra, John Dos Passos. Scrisse: «Ciò che vidi mi provoco una totale disillusione rispetto al comunismo e all'Unione Sovietica. Il governo di Mosca dirigeva in Spagna delle bande di assassini che ammazzavano senza pietà chiunque ostacolasse il cammino dei comunisti. Poi infangavano la reputazione delle loro vittime con una serie di calunnie». Le stesse infamie, sia pure su scala ridotta, vennero commesse in Italia da bande armate del Pci, durante e dopo la guerra civile.

C'è da scommettere che il nuovo libro di Giampaolo Pansa, La guerra sporca dei partigiani e dei fascisti (Rizzoli, pagg. 446, euro 19,50; in libreria dal 10 ottobre), farà infuriare le vestali della Resistenza. Mai in maniera così netta come nell'introduzione al volume (di cui per gentile concessione pubblichiamo un estratto) i crimini partigiani sono equiparati a quelli dei fascisti. Giampaolo Pansa imbastisce un romanzo che, sull'esempio delle sue opere più note, racconta la guerra civile in chiave revisionista, sottolineando le storie dei vinti e i soprusi dei presunti liberatori, i partigiani comunisti in realtà desiderosi di sostituire una dittatura con un'altra, la loro.
 

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