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MAGISTRATI SI CREDONO DIO

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[h=1]MAGISTRATI SI CREDONO DIO E "DONANO" LA CAPACITÀ AGLI OMOSESSUALI DI ESSERE PADRI[/h]

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[IMG2=JSON]{"alt":"sentenza gay trento","data-align":"none","data-size":"full","height":"NaN","src":"https:\/\/www.nicolomardegan.it\/images\/ARTICOLI\/sentenza-gay-trento.JPG"}[/IMG2]Questa mattina il caffè è andato di traverso dopo aver appreso che a TRENTO è stata assegnata la PATERNITÀ DI DUE GEMELLI ad una COPPIA GAY.
Secondo la Corte d’Appello di Trento, due uomini possono essere considerati padri di due bimbi nati all’estero grazie ad una maternità surrogata. Con un’ordinanza emessa giovedì scorso la prima Sezione della Corte ha riconosciuto l’efficacia giuridica del provvedimento assunto in Canada.
I giudici si credono Dio e "donano" per magia la capacità di essere padri agli omosessuali. C'è un limite a tutto e il potere giudiziario deve ripartire dal diritto naturale anziché stravolgere la realtà e trasformare la donna, il suo ventre e i bimbi, in oggetti da comprare per soddisfare il proprio ego sfacciato.
Lo chiamate amore?? Spezzate le catene del politicamente corretto e rispondete con sincerità!


https://www.nicolomardegan.it/index...apacità-agli-omosessuali-di-essere-padri.html
 
[h=1]L'autogiustizia dei giudici: chi sbaglia non paga mai[/h] [h=2][/h]
Nei procedimenti disciplinari al Csm le condanne sono irrilevanti. Così le toghe mantengono posto (e stipendio)

Lodovica Bulian - Ven, 24/03/2017 - 08:29
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C'è chi si dimentica di liberare un imputato entro i termini previsti, come quel poveretto che è rimasto trentasette giorni in più dietro le sbarre perché il gip non si era premurato di ordinare la sua scarcerazione.
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C'è anche chi si è letteralmente inventato un provvedimento «non previsto dalle norme vigenti», con cui anziché sottoporre a interrogatorio una nigeriana accusata di riduzione in schiavitù e sfruttamento, l'ha liberata perché l'ordine di arresto era «in una lingua a lei non conosciuta». L'errore, definito dai giudici disciplinari «macroscopico», è solo un esempio delle storie che macchiano il buon nome delle toghe italiane. Che però, nella maggior parte dei casi, quando sbagliano se la cavano con qualche tirata d'orecchie, mentre il comune cittadino è costretto a misurare la propria vita con il caos calmo della giustizia. Colpevole o innocente, spesso vittima inconsapevole degli errori di chi lo giudica.

Sviste, interferenze, ritardi, violazione degli obblighi di diligenza, inescusabili negligenze. L'altra faccia della magistratura si materializza ogni anno in 170-190 procedimenti all'esame nella sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura, il regno dove giudici giudicano altri giudici. Dove si infliggono sanzioni ma molte più volte si assolvono i colleghi distratti sotto le formule di «irrilevanza del fatto», «insussistenza», «non luogo a procedere». Appena il 70% delle richieste finisce col rinvio a giudizio e poco meno del 50% dei processati subisce una condanna, secondo fonti del Csm. Per non parlare di certi comportamenti «riprovevoli» che sfuggono alle maglie che classificano gli illeciti disciplinari: condotte che germogliano nella zona grigia che esula dall'esercizio delle funzioni e pertanto non sanzionabili. Non per questo meno disonorevoli.

Quando e se si arriva a condanna, fioccano ammonimenti, poco più che un invito a fare più attenzione, censure, un semplice biasimo formale, molto più raramente si registrano sospensioni dall'incarico. Poco male, visto che i magistrati che vi incorrono incassano comunque i due terzi del loro stipendio. Quasi mai si arriva alla rimozione, la sanzione più pesante prevista dall'ordinamento: «Io in questi anni non ne ho viste» dice Pierantonio Zanettin, membro laico del Csm. Così, se il sistema disciplinare viene sventolato a garanzia dell'autonomia della magistratura, la credibilità dell'autocritica della categoria rischia di sgonfiarsi in un «sistema inefficace - aggiunge Zanettin - in cui troppe volte certe opacità sono rimaste tali».

I numeri snocciolati in un convegno di Magistratura indipendente a Torino dal già vicepresidente del Csm Michele Vietti rivelano che dai procedimenti svolti dalla sezione disciplinare tra settembre 2014 e gennaio 2017, sono uscite 122 condanne, 118 assoluzioni, 124 ordinanze di «non luogo a procedere» e 17 sentenze di «non doversi procedere».

Al primo posto nella classifica delle lacune dei magistrati, oltre alle violazioni delle libertà personali e delle garanzie dell'indagato, come le tardive scarcerazioni per negligenza, ci sono «incoerenza e mancanza» delle motivazioni e clamorosi ritardi nelle sentenze. Un giudice invece ha pensato di sbrigarsela con un verdetto di assoluzione facendo copia e incolla dell'arringa difensiva dell'avvocato. Un suo collega ha collezionato ritardi, superiori a un anno, nel deposito di 164 sentenze. Errori «formali» che diventano «sostanza» micidiale quando la giustizia intercetta vite, storie, persone. Se i procedimenti svolti dal Csm confermano la «serietà» e il rigore nell'autogiudizio, secondo Vietti però «non tutto funziona». La «tipizzazione degli illeciti lascia non poche smagliature», apre varchi di impunità che non permettono «di intercettare condotte riprovevoli» perché non classificate dalle norme. Così comportamenti «irrispettosi» scivolano nell'oblio grazie a «formule tortuose». Un magistrato per un anno ha fatto campagna elettorale per diventare vicesindaco della propria città con una lista collegata a un partito. È stato assolto perché la partecipazione alla vita politica «non si è configurata come continuativa» e passibile di sanzione.

Contraddizioni. Paradossi. E l'ammonimento: «La materia disciplinare - avverte - non diventi una trincea in cui l'ordinamento si chiude a difesa di se stesso e delle sue prerogative».
 
[h=1]Dai maialini scambiati per droga ad Albaro trascritto «al baro»: quando l'errore rovina una vita[/h] [h=2][/h]
Basta una parola fraintesa per mandare in galera un innocente. Molti gli esempi, da Modena a Catania

Domenico Ferrara - Sab, 15/04/2017 - 08:34
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Si può finire in carcere per una consonante? In Italia sì. Chiedetelo a Gianfranco Callisti, elettricista della provincia di Modena, che ha passato sei mesi in cella, tre ai domiciliari e altrettanti in libertà vigilata.
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Innocente, ma condannato dallo strumento inflessibile dell'intercettazione. Il suo soprannome, «Callo», venne confuso con il nome di «Carlo», persona coinvolta nell'inchiesta. Una erre di troppo, insomma. Il Grande fratello giudiziario può diventare un'arma a doppio taglio, scivolosa e ferale ogni volta in cui l'attenzione o la competenza degli organi inquirenti latitano. E quando ciò avviene il risultato è devastante, ma solo per i cittadini accusati ingiustamente.

Come i fratelli Antonio e Michele Ianno, di San Marco in Lamis (Foggia), detenuti per tre anni e accusati di concorso in duplice omicidio e di essere mafiosi. Tutto falso. Perché l'efficiente macchina della giustizia aveva pensato bene di far analizzare le intercettazioni a un consulente bolognese che, ça va sans dire, non capendo nulla del dialetto foggiano, ha interpretato a modo suo.

Stesso discorso per Emanuele Nassisi. Per gli inquirenti, la parola «auto» significava «droga» e la frase «sutta la porta», punto di ritrovo dei cittadini di Parabita (Lecce), era invece considerata la porta di casa dello spacciatore. Nomi in codice mal decifrati, errori di interpretazione delle intercettazioni costati due mesi di cella. Da innocente.

Nel tritacarne giudiziario ci finì anche un ex calciatore, Omar Milanetto, accusato di associazione a delinquere finalizzata alla frode sportiva e trascinato in carcere dove trascorse 17 giorni. Peccato che poi si rivelò tutto falso anche a causa di alcune intercettazioni mal analizzate, come quella in cui l'ex giocatore del Genoa spiegava di volersi recare ad Albaro per fare compere, frase trascritta però come se Milanetto avesse detto di voler andare «dal baro» per truccare qualche partita.

Di giorni in carcere invece Antonio Francesco Di Nicola, autotrasportatore di San Benedetto dei Marsi, se ne fece sette. Dall'ascolto delle intercettazioni, veniva chiamato in causa da alcune persone, ma con un soprannome che non era il suo, bensì di un altro. Nelle telefonate si parlava di un certo Francesco detto Broccolone e si sosteneva che aveva trasportato dalla Spagna 22 chili di droga. Ma il soprannome di Di Nicola era Cozzolino e in quel periodo si trovava in un altro posto.

La malagiustizia rovina persone, imprese e famiglie. Ne sa qualcosa Mauro Quinto, titolare di una delle più importanti aziende europee di commercio ittico e accusato di concorso esterno in associazione di stampo mafioso. Per lui si sono spalancate le porte del carcere. Poi, dopo «soli» undici anni, arrivò l'assoluzione. Il fatto non sussiste. Come non sussisteva l'interpretazione che gli inquirenti avevano dato ad alcune conversazioni messe a verbale tra cui, come riportava la cronaca del Secolo XIX, quella con un gruppo di fornitori siciliani: «Dovete lavorare bene e per farlo dovete andare a vedere come lavorano al mercato di Marsala». Frase interpretata dalla Dia di Catania come un tentativo della mafia del tonno di espandersi anche nella Sicilia occidentale.

Per raggiungere infine il paradosso basta citare la vicenda di Donato Privitelli, che ha passato 101 giorni in carcere accusato di traffico di droga. Una delle pistole fumanti era un'intercettazione in cui usava il termine «maialini» per riferirsi agli stupefacenti. Peccato che poi si scoprì che i suini erano veri e che l'interlocutore al telefono era un macellaio.
 

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