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PEPPINO... IO TI RICORDO COSI... GRAZIE

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Roby

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DEDICATO A TE (PEPPINO IMPASTATO)

1978
9 maggio. Alle ore 1,40 il macchinista del treno Trapani-Palermo, Gaetano Sdegno, transitando in località "Feudo", nel territorio di Cinisi, avverte uno scossone, ferma la locomotiva e constata che il binario era tranciato. Avverte il dirigente della stazione ferroviaria che, alle 3,45 chiama per telefono i carabinieri. Questi accorrono sul posto: dal loro sopralluogo risulta che il binario è stato divelto per un tratto di circa 40 centimetri e che nel raggio di circa 300 metri erano sparsi resti umani. La persona deceduta in seguito all'esplosione viene identificata in Giuseppe (familiarmente Peppino) Impastato.
Peppino è cresciuto tra un padre mafioso, anche se prudentemente autopensionatosi, e una madre educata a tacere, ma che di tanto in tanto esplode. Il suo rifiuto della mafia e tutt’uno con la sua infanzia, con la sua voglia di vivere che si scontra con l’autoritarismo del padre.

Peppino ha rotto due tabù: quello mafioso e quello democristiano. A Cinisi mafia e Democrazia Cristiana sono la stessa cosa, e lo sono pure nella famiglia di Luigi Impastato. Il padre lo scaccia di casa; é un gesto plateale che si ripeterà varie volte, fino alla definitiva espulsione. Il padre, cacciandolo di casa, dice a tutto il paese, e “manda a dire” in particolare ai suoi amici capimafia e gregari, che lui non ha niente a che fare con quel figlio e con quelle scelte.

Questa storia familiare, micidiale per Peppino ed emblematica di una Sicilia che uccide prima che con la lupara e i kalashnikov con i suoi tiranni familiari, padri che vogliono i figli a loro immagine e somiglianza e che per essere domestici saturni non sempre hanno bisogno di essere affiliati alle “onorate società”, ha diviso in due la personalità di Peppino e ha spaccato la sua stessa famiglia.

Dagli appunti di Peppino abbiamo un quadro umano, oltre che politico, dell’esperienza del ’68.

(......) “E stato forse quello il periodo più straziante e al tempo stesso più esaltante della mia esistenza e della mia storia politica. Passavo con continuità ininterrotta da fasi di cupa disperazione a momenti di autentica esaltazione e capacità creativa: la costruzione di un vastissimo movimento d’opinione a livello giovanile, il proliferare delle sedi di partito nella zona, le prime esperienze di lotta di quartiere, stavano li a dimostrarlo. Ma io mi allontanavo sempre più dalla realtà, diventava sempre più difficile stabilire un rapporto lineare col mondo esterno, mi racchiudevo sempre più in me stesso. Mi caratterizzava una grande paura di tutto e di tutti e al tempo stesso una voglia quasi incontrollabile di aprirmi e costruire. Da un mese all’altro, da una settimana all’altra, diventava sempre più difficile riconoscermi. Per giorni e giorni non parlavo con nessuno, poi ritornavo a gioire, a proporre, a riproporre: vivevo in uno stato di incontrollabile schizofrenia.”

Umberto Santino ha scritto di lui:

“Io non so, per non averlo mai visto da vicino, come Peppino sorrideva, e se sorrideva; non so com’era quando sprofondava in una crisi di disperazione o quando faceva un comizio o scriveva un volantino. Le immagini fotografiche che ho di lui sono scialbe e deludenti. La voce delle registrazioni non mi dice niente di particolare. Ma ho capito e capisco, ho rispettato e rispetto, potrei dire anche amato, quello che mi pare nucleo e radice della sua vicenda personale. Si chiama, senza infingimenti, solitudine. Peppino è stato, o comunque si è sentito, solo dentro la sua famiglia, nel suo paese, nella sua attività politica, e tutta la sua vita è lacerata da una rottura originaria e volta a rimarginarla in un impegno di convivenza con gli altri, sempre rinnovato, fino alla fine, anche se sempre, o quasi sempre, deluso. Queste cose le ha scritte, senza pietà, o più verisimilmente con grandissima pietà, per se stesso e per gli altri.”

Queste vogliono essere, come altre pagine dedicate ad altri “Testimo
 
<center></center>LE SUE POESIE

Un mare di gente
a flutti disordinati
s'è riversato nelle piazze,
nelle strade e nei sobborghi.
E' tutto un gran vociare
che gela il sangue,
come uno scricchiolo di ossa rotte.
Non si può volere e pensare
nel frastuono assordante;
nell'odore di calca
c'è aria di festa


E venne da noi un adolescente
dagli occhi trasparenti
e dalle labra carnose,
alla nostra giovinezza
consunta nel paese e nei bordelli.
Non disse una sola parola
nè fece gesto alcuno:
questo suo silenzio
e questa sua immobilità
hanno aperto una ferita mortale
nella nostra consunta giovinezza.
Nessuno ci vendicherà:
la nostra pena non ha testimoni



Appartiene al tuo sorriso
l'ansia dell'uomo che muore,
al suo sguardo confuso
chiede un pò d'attenzione,
alle sue labbra di rosso corallo
un ingenuo abbandono,
vuol sentire sul petto
il suo respiro affannoso:
è un uomo che muore.



Fiore di campo nasce
dal grembo della terra nera,
fiore di campo cresce
odoroso di fresca rugiada,
fiore di campo muore
sciogliendo sulla terra
gli umori segreti.


E' triste non avere fame
di sera all'osteria
e vedere nel fumo
dei fagioli caldi
il suo volto smarrito


Lunga è la notte
e senza tempo.
Il cielo gonfio di pioggia
non consente agli occhi
di vedere le stelle.
Non sarà il gelido vento
a riportare la luce,
nè il canto del gallo,
nè il pianto di un bimbo.
Troppo lunga è la notte,
senza tempo,
infinita.



I miei occhi giacciono
in fondo al mare
nel cuore delle alghe
e dei coralli.


Seduto se ne stava
e silenzioso
stretto a tenaglia
tra il cielo e la terra
e gli occhi
fissi nell'abisso.


"I VERI PROFETI SI RICONOSCONO DALLE LORO OPERE E DAL TEMPO"
ERASMO
 
<center></center>"I CENTO PASSI"



“Tra la casa di Peppino Impastato e quella di Gaetano Badalamenti ci sono cento passi. Li ho consumati per la prima volta in un pomeriggio di gennaio, con uno scirocco gelido che lavava i marciapiedi e gonfiava i vestiti. Mi ricordo un cielo opprimente e la strada bianca che tagliava il paese in tutta la sua lunghezza, dal mare fino alle prime pietre del monte Pecoraro. Cento passi, cento secondi: provai a contarli e pensai a Peppino. A quante volte era passato davanti alle persiane di Don Tano quando ancora non sapeva come sarebbe finita. Pensai a Peppino, con i pugni in tasca, tra quelle case, perduto con i suoi fantasmi. Infine pensai che è facile morire in fondo alla Sicilia.” (Claudio Fava, “Cinque delitti imperfetti”, Mondatori 1994, p.9)

Già nel ’78 la storia di Peppino aveva ispirato due efficaci servizi televisivi di Michele Mangiafico e di Giuseppe Marrazzo.
L’idea di fare un film sulla vicenda viene, nel 79 al regista Gillo Pontecorvo. Egli arriva a Cinisi per un’indagine preliminare, si informa se nella vita di Peppino c’era qualche ragazza, chiede per quale motivo la gente avrebbe dovuto dare ascolto a Peppino e al suo messaggio, sparisce senza dare più notizie.
Nel 1993 Claudio Fava e il regista Marco Risi preparano, per Canale 5, un servizio su Peppino, il primo di una serie intitolata “Cinque delitti imperfetti”, quelli di Impastato, Boris Giuliano, Giuseppe Insalaco, Mauro Ristagno e Giovanni Falcone.
Nel 1995 ci prova il regista Antonio Garella, che prepara un video, poi inspiegabilmente non più trasmesso, per la trasmissione televisiva “Mixer”. C’è anche qualche “Piovra” televisiva che si ispira al caso di un giovane impegnato contro la mafia, che lavora in una radio libera.
Nel 1998 è la volta del giovane regista Antonio Bellia con un video di 32 minuti dal titolo “Peppino Impastato: storia di un siciliano libero”, distribuito da “Il Manifesto”.
Contemporaneamente Claudio Fava e la sua compagna Monica Capelli cominciano a lavorare su una sceneggiatura, mi richiedono una copia delle registrazioni di Radio Aut, concorrono al Premio Solinas, che vincono, e con il quale si ottengono una parte dei fondi per finanziare il film. Il lavoro di regia viene affidato a Marco Tullio Giordana, già autore di alcuni films d’impegno, come “Maledetti vi amerò” (1980) e “Pasolini, un delitto italiano” (1995), autore anche di un romanzo edito nel 1990 “Vita segreta del signore delle macchine”: come scritto in un settimanale, si ritrova nella sua opera “l’ossessivo filo conduttore del confronto con la memoria”.
Giordana, con molto scrupolo professionale, individua i luoghi, ascolta le testimonianze, recepisce i suggerimenti di modifica di alcune parti di sceneggiatura, assume gli attori, in gran parte locali e, comunque siciliani: tra di essi Luigi Lo Cascio, un attore di teatro alla sua prima esperienza, che recita la parte di Peppino,, cui somiglia in modo impressionante, Lucia Sardo, ottima interpetre della madre di Peppino, Gigi Burruano, il padre di Peppino, che conferisce al suo personaggio una drammatica e toccante umanità, Tony Sperandeo, ormai specializzato nella parte del mafioso e, in questo caso di Tano Badalamenti, Claudio Gioè, interamente dentro la parte di Salvo Vitale. Il film crea scalpore ed entusiasmo a Cinisi, coinvolge l’intero paese e riesce ad ottenere molti più risultati di quanti non se ne erano conseguiti in vent’anni di lavoro politico.
Dopo alcuni mesi di intenso impegno, grazie anche al sostegno del giovane produttore Fabrizio Mosca, Giordana riesce a concludere il lavoro e partecipa, il 31 agosto, al Festival di Venezia: l’effetto è subito sconvolgente: dodici minuti di applausi, entusiasmi, premio per la migliore sceneggiatura, leoncino d’oro a Lorenzo Randazzo, che interpreta la parte di Pappini bambino.
Man mano che esce nelle sale cinematografiche, il film continua a raccogliere consensi, a suscitare emozioni e si conclude costantemente con applausi spontanei e f
 
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