Alien.
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La strage di Milano
Ha ucciso tre persone a colpi di piccone: non andrà in carcere
Mada Kabobo è stato ritenuto dalla perizia psichiatrica "incapace di intendere e di volere". Potrebbe addirittura non finire sotto processo
Siete nervosi? Non trovate lavoro né moglie? Faticate ad ambientarvi? Prendete un piccone, andate in giro per la vostra città e ammazzate a randellate chi vi pare, meglio se i primi che vi si parano davanti a caso. Tranquilli, non andrete in prigione, e se vi va bene potrete perfino evitare il processo. Basterà dire che sentivate delle «strane voci», e a salvarvi sarà il precedente di Kabobo, il ghanese clandestino che all’alba dell’11 maggio scorso ha seminato il panico a Milano, massacrando tre persone. Già perché, dopo averlo analizzato per oltre due mesi, gli psichiatri hanno sentenziato che «Kabobo è pazzo». Perspicaci, chissà quanto devono aver studiato, e che esperienza, per giungere a questa meditata conclusione.
E adesso? Delle due, una: o l’assassino sarà ritenuto incapace d’intendere e volere solo al momento della mattanza (ma è difficile sostenerlo, visto che i tre omicidi si sono svolti in momenti e luoghi diversi) e quindi sarà prosciolto e affidato a un ospedale psichiatrico, oppure (più probabile) sarà ritenuto incapace anche di stare in giudizio e allora non dovrebbe neppure scomodarsi per andare in tribunale e non sarebbe processato per l’accusa di triplice omicidio e lesioni volontarie. In entrambi i casi comunque, non finirà in cella. Ma se ce l’ha fatta Kabobo a esser prosciolto, senza passaporto, senza avvocato, senza parlare italiano, volete non farcela voi a trovare un qualche luminare pronto a giurare che chi fa a pezzi il prossimo senza neppure conoscerlo non ha tutte le rotelle a posto o comunque è annebbiato dal peso della vita contemporanea?
Sono i paradossi della giustizia italiana, in cui le vittime vengono spesso uccise due volte e il carnefice finisce pure lui a passare per vittima. Perché, anche se il risultato del combinato disposto psichiatrico-giudiziario potrà sembrare agli esperti ineccepibile, la vicenda del non processo a Kabobo qualche allarmante interrogativo lo suscita. E non solo al padre di Daniele Carella, la più giovane delle vittime del killer che sentiva le voci, 21 anni e tre lavori, ucciso sotto gli occhi del genitore che aiutava a distribuire giornali.
Siamo ostaggi di un sistema giudiziario in cui se uno in campagna elettorale promette di abolire la tassa sulla casa può finire in un fascicolo della magistratura per voto di scambio, si vogliono processare 32 persone perché hanno reso una testimonianza diversa dalle tesi del pm, basta la delazione di un mafioso per mandare a giudizio un generale dei carabinieri ma guai a chiedere conto di una strage a un clandestino fermato con un’ascia insanguinata. Possibile che Berlusconi meriti un numero di processi di cui ormai neppure i suoi avvocati riescono a tenere il conto e Kabobo neppure uno? A nessun esperto di diritto pare grottesco? Solo a noi ignoranti, profani, razzisti, politicamente scorretti qualcosa non torna? Archiviare il caso Kabobo con la diagnosi «è pazzo» è un’assoluzione senza indagine, un insulto alle vittime e un’ingiustizia verso tutto il Paese, perché in questa vicenda un processo servirebbe proprio. Ci darebbe molte risposte: per esempio su com’è possibile che uno non sia in grado di spiaccicare una parola davanti alla polizia che lo arresta ma sia stato capace di presentare la richiesta d’asilo che ne ha impedito l’espulsione. Oppure su com’è possibile introdursi clandestinamente in Italia, venire catturati e smistati nei centri d’accoglienza, partecipare a rivolte violente e poi far perdere le proprie tracce come nulla fosse. Dovrebbe essere lo stesso ministro dell’Integrazione Kyenge, che in tutto questo caso ha brillato per i suoi silenzi e le sue assenze. Ma forse conviene non indagare troppo. Magari si scoprirebbe che se fosse stato espulso, anziché costretto a trascinarsi per l’Italia per due anni come una bestia, Kabobo non sarebbe diventato un pazzo criminale. Oppure si potrebbero scoprire connivenze e responsabilità politiche su cui è meglio non indugiare, emergerebbero errori, lacune legislative da colmare per evitare un Kabobo bis. Ci sono davvero? Illazioni; tanto non si sa, non sapremo mai, perché non ci sarà processo.
Una cosa forse la psicologia spicciola però può dircela: che alla fine Kabobo è l’unico vincitore di questa storia di orrore personale e miseria nazionale. Quella sua mattanza è un folle grido d’aiuto, la richiesta di avere una porta aperta, fosse anche quella di un manicomio, di qualcuno che si occupi di lui e lo salvi dall’abbandono e dalla solitudine. A questa richiesta, lo Stato risponde «presente» senza chiedersi null’altro, senza attivare meccanismi che portino a scavare nelle sue colpe e senza preoccuparsi di rendere giustizia ai morti e ai loro famigliari. Ma soprattutto, senza darsi pena di conoscere fino in fondo l’assassino. È davvero pazzo, e quanto? Sente «le voci cattive», come dice, oppure un insopprimibile desiderio di vendetta sociale? Attenti, chi per gli psichiatri è pazzo oggi senza processo, tra cinque anni potrebbe essere dichiarato da altri psichiatri «guarito» e, non avendo nessuna pena da scontare, tornare in libertà. A quel punto, l’assassino Kabobo avrebbe vinto due volte. Anche perché, non avendo certezza della sua nazionalità, sarà più probabile che finisca in un reality piuttosto che espulso.
di Pietro Senaldi
Macelleria clandestina
Chi è Mada Kabobo, il picconatore ghanese di Milano
di Salvatore Garzillo
La storia giudiziaria di Kabobo inizia in Puglia nel luglio 2011. Arrivato da clandestino, il ghanese presenta istanza per l’asilo politico e ottiene un permesso di soggiorno temporaneo (come previsto dalla legge); tuttavia la commissione regionale, incaricata di valutare la sua situazione, respinge la domanda e mette fine alla validità del permesso. Come molti altri africani nella sua condizione, Kabobo fa ricorso e diventa «inespellibile»: non può essere allontanato dall’Italia prima della definizione della vicenda burocratica.
Alla fine di luglio 2011 arriva nel Cara di Bari (Centro accoglienza richiedenti asilo), dove il primo agosto scoppia una rivolta tra i circa 200 ospiti, che lamentano i ritardi nel riconoscimento dello status di rifugiati. Sono 35 i poliziotti feriti per il lancio di pietre e decine gli stranieri fermati, tra cui anche il ghanese (accusato fra l’altro di furto aggravato). L’extracomunitario viene trasferito al carcere di Lecce. Qui, a conferma del suo temperamento burrascoso, si becca una denuncia per danneggiamento per aver spaccato un televisore. Dal penitenziario uscirà - a titolo definitivo - il 17 febbraio 2012. Il motivo del rilascio è disarmante: decorrenza dei termini di custodia. Da quel momento, diviene uno dei tanti immigrati clandestini in giro per il nostro Paese.
Rispunta a Milano nell’aprile scorso, quando i carabinieri lo notano mentre si aggira davanti a una farmacia in viale Monza. Kabobo viene accompagnato in caserma per l’identificazione e il fotosegnalamento, dopo i quali è rimesso in libertà in quanto non risulta avere «pendenze giuridiche». Poiché è ancora in attesa di scoprire l’esito del suo ricorso, non può essere allontanato dall’Italia – è la legge – e una volta messo alla porta dai militari, si trasforma in un senzatetto.
Non è ancora chiaro dove abbia trascorso l’ultimo periodo, anche se gli investigatori ritengono che possa aver dormito in strada in un rifugio di fortuna ricavato in un parchetto poco distante dal luogo delle aggressioni. Per tutto il giorno i carabinieri hanno setacciato la zona proprio in cerca di indizi in proposito ma, al momento in cui scriviamo, non ci sono conferme in tal senso.
La storia del ghanese non è diversa da quella di molti altri suoi connazionali. È legalmente autorizzato a stare in Italia, sebbene abbia precedenti penali, abbia partecipato a una sommossa, lanciato pietre, rubato, danneggiato proprietà e aggredito poliziotti. La sua condizione di immigrato clandestino non gli ha impedito di vivere all’aria aperta – esclusa la breve parentesi nel penitenziario di Lecce – né di continuare un’esistenza da balordo senza punti di riferimento. Fino alla mattina in cui ha deciso di prendere in mano un piccone e fare una strage.
Milano, chi sono le vittime del ghanese: operaio, pensionato, disoccupato
Un morto, due feriti gravi, altri due sfuggiti al piccone di Kabobo. E tutti scelti a caso
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11/05/2013
È una storia di casualità, ritardi e appuntamenti sbagliati. Se ieri mattina Alessandro Carolè fosse riuscito a dormire qualche minuto in più, non racconteremmo la sua tragica fine. Quarant’anni, disoccupato, viveva con l’anziana madre dopo la morte del padre, e proprio a lei ha rivolto le sue ultime parole prima di uscire di casa: «Non riesco a dormire, scendo a prendere un caffè al bar». Per lui «il bar» era il DelRosso in piazza Belloveso, dove era un habituè. «Una brava persona, aveva già sofferto molto nella vita», ricorda un residente con la voce rotta. «Sarebbe potuto capitare a chiunque. Anch’io passo di lì molto presto per fare colazione».
È questa la cosa che colpisce di più, l’assoluta casualità nella scelta delle vittime. Carolè è stato ucciso dalla sua insonnia, gli altri hanno rischiato di fare la stessa fine (qualcuno è possibile la faccia nelle prossime ore) lungo un’intricata sequenza di azioni che li hanno fatti arrivare puntuali all’appuntamento sbagliato.
Andrea Carfora, 24 anni, stava tornando a casa dopo il turno da commesso in un supermercato: stanco e assonnato, non si è accorto dell’energumeno con un piccone in mano.
Francesco Niro invece stava iniziando la giornata di lavoro come operaio, ma all’improvviso si è ritrovato a correre all’ospedale (stoicamente e sulle sue gambe) per una ferita alla testa.
C’è poi chi quell’appuntamento l’ha rimandato all’ultimo minuto, come l’imbianchino Antonio Morisco, che ha incrociato in via Monte Grivola l’africano sporco di sangue e ha pensato bene di tuffarsi oltre il portone di casa il prima possibile. Solo guardando la tv ha scoperto che «quel nero con gli occhi da pazzo» aveva fatto una strage, aggredendo subito dopo altre tre persone.
Il primo di queste, Ermanno Masini, è un pensionato di 64 anni originario di un paesino in provincia di Modena, che vive da solo ed era uscito all’alba per portare a spasso il cagnolino (del quale non si hanno più notizie).
Duecento metri più avanti, Kabobo ha incontrato Carolè davanti al bar, pronto a bere il suo agognato caffè. Mentre colpiva un corpo ormai senza vita, dall’altra parte dell’isolato Daniele Carella, di 21 anni, avevea appena parcheggiato il furgoncino col quale tutte le mattine consegnava i giornali assieme al padre. Se avesse sbagliato strada, si fosse fermato a un semaforo in più, se solo ci fosse stato più traffico, ora non sarebbe in un letto dell’ospedale Niguarda in condizioni disperate, con la testa fracassata da quell’energumeno che non avrebbe dovuto essere in circolazione.
Ha ucciso tre persone a colpi di piccone: non andrà in carcere
Mada Kabobo è stato ritenuto dalla perizia psichiatrica "incapace di intendere e di volere". Potrebbe addirittura non finire sotto processo
Siete nervosi? Non trovate lavoro né moglie? Faticate ad ambientarvi? Prendete un piccone, andate in giro per la vostra città e ammazzate a randellate chi vi pare, meglio se i primi che vi si parano davanti a caso. Tranquilli, non andrete in prigione, e se vi va bene potrete perfino evitare il processo. Basterà dire che sentivate delle «strane voci», e a salvarvi sarà il precedente di Kabobo, il ghanese clandestino che all’alba dell’11 maggio scorso ha seminato il panico a Milano, massacrando tre persone. Già perché, dopo averlo analizzato per oltre due mesi, gli psichiatri hanno sentenziato che «Kabobo è pazzo». Perspicaci, chissà quanto devono aver studiato, e che esperienza, per giungere a questa meditata conclusione.
E adesso? Delle due, una: o l’assassino sarà ritenuto incapace d’intendere e volere solo al momento della mattanza (ma è difficile sostenerlo, visto che i tre omicidi si sono svolti in momenti e luoghi diversi) e quindi sarà prosciolto e affidato a un ospedale psichiatrico, oppure (più probabile) sarà ritenuto incapace anche di stare in giudizio e allora non dovrebbe neppure scomodarsi per andare in tribunale e non sarebbe processato per l’accusa di triplice omicidio e lesioni volontarie. In entrambi i casi comunque, non finirà in cella. Ma se ce l’ha fatta Kabobo a esser prosciolto, senza passaporto, senza avvocato, senza parlare italiano, volete non farcela voi a trovare un qualche luminare pronto a giurare che chi fa a pezzi il prossimo senza neppure conoscerlo non ha tutte le rotelle a posto o comunque è annebbiato dal peso della vita contemporanea?
Sono i paradossi della giustizia italiana, in cui le vittime vengono spesso uccise due volte e il carnefice finisce pure lui a passare per vittima. Perché, anche se il risultato del combinato disposto psichiatrico-giudiziario potrà sembrare agli esperti ineccepibile, la vicenda del non processo a Kabobo qualche allarmante interrogativo lo suscita. E non solo al padre di Daniele Carella, la più giovane delle vittime del killer che sentiva le voci, 21 anni e tre lavori, ucciso sotto gli occhi del genitore che aiutava a distribuire giornali.
Siamo ostaggi di un sistema giudiziario in cui se uno in campagna elettorale promette di abolire la tassa sulla casa può finire in un fascicolo della magistratura per voto di scambio, si vogliono processare 32 persone perché hanno reso una testimonianza diversa dalle tesi del pm, basta la delazione di un mafioso per mandare a giudizio un generale dei carabinieri ma guai a chiedere conto di una strage a un clandestino fermato con un’ascia insanguinata. Possibile che Berlusconi meriti un numero di processi di cui ormai neppure i suoi avvocati riescono a tenere il conto e Kabobo neppure uno? A nessun esperto di diritto pare grottesco? Solo a noi ignoranti, profani, razzisti, politicamente scorretti qualcosa non torna? Archiviare il caso Kabobo con la diagnosi «è pazzo» è un’assoluzione senza indagine, un insulto alle vittime e un’ingiustizia verso tutto il Paese, perché in questa vicenda un processo servirebbe proprio. Ci darebbe molte risposte: per esempio su com’è possibile che uno non sia in grado di spiaccicare una parola davanti alla polizia che lo arresta ma sia stato capace di presentare la richiesta d’asilo che ne ha impedito l’espulsione. Oppure su com’è possibile introdursi clandestinamente in Italia, venire catturati e smistati nei centri d’accoglienza, partecipare a rivolte violente e poi far perdere le proprie tracce come nulla fosse. Dovrebbe essere lo stesso ministro dell’Integrazione Kyenge, che in tutto questo caso ha brillato per i suoi silenzi e le sue assenze. Ma forse conviene non indagare troppo. Magari si scoprirebbe che se fosse stato espulso, anziché costretto a trascinarsi per l’Italia per due anni come una bestia, Kabobo non sarebbe diventato un pazzo criminale. Oppure si potrebbero scoprire connivenze e responsabilità politiche su cui è meglio non indugiare, emergerebbero errori, lacune legislative da colmare per evitare un Kabobo bis. Ci sono davvero? Illazioni; tanto non si sa, non sapremo mai, perché non ci sarà processo.
Una cosa forse la psicologia spicciola però può dircela: che alla fine Kabobo è l’unico vincitore di questa storia di orrore personale e miseria nazionale. Quella sua mattanza è un folle grido d’aiuto, la richiesta di avere una porta aperta, fosse anche quella di un manicomio, di qualcuno che si occupi di lui e lo salvi dall’abbandono e dalla solitudine. A questa richiesta, lo Stato risponde «presente» senza chiedersi null’altro, senza attivare meccanismi che portino a scavare nelle sue colpe e senza preoccuparsi di rendere giustizia ai morti e ai loro famigliari. Ma soprattutto, senza darsi pena di conoscere fino in fondo l’assassino. È davvero pazzo, e quanto? Sente «le voci cattive», come dice, oppure un insopprimibile desiderio di vendetta sociale? Attenti, chi per gli psichiatri è pazzo oggi senza processo, tra cinque anni potrebbe essere dichiarato da altri psichiatri «guarito» e, non avendo nessuna pena da scontare, tornare in libertà. A quel punto, l’assassino Kabobo avrebbe vinto due volte. Anche perché, non avendo certezza della sua nazionalità, sarà più probabile che finisca in un reality piuttosto che espulso.
di Pietro Senaldi
Macelleria clandestina
Chi è Mada Kabobo, il picconatore ghanese di Milano
di Salvatore Garzillo
La storia giudiziaria di Kabobo inizia in Puglia nel luglio 2011. Arrivato da clandestino, il ghanese presenta istanza per l’asilo politico e ottiene un permesso di soggiorno temporaneo (come previsto dalla legge); tuttavia la commissione regionale, incaricata di valutare la sua situazione, respinge la domanda e mette fine alla validità del permesso. Come molti altri africani nella sua condizione, Kabobo fa ricorso e diventa «inespellibile»: non può essere allontanato dall’Italia prima della definizione della vicenda burocratica.
Alla fine di luglio 2011 arriva nel Cara di Bari (Centro accoglienza richiedenti asilo), dove il primo agosto scoppia una rivolta tra i circa 200 ospiti, che lamentano i ritardi nel riconoscimento dello status di rifugiati. Sono 35 i poliziotti feriti per il lancio di pietre e decine gli stranieri fermati, tra cui anche il ghanese (accusato fra l’altro di furto aggravato). L’extracomunitario viene trasferito al carcere di Lecce. Qui, a conferma del suo temperamento burrascoso, si becca una denuncia per danneggiamento per aver spaccato un televisore. Dal penitenziario uscirà - a titolo definitivo - il 17 febbraio 2012. Il motivo del rilascio è disarmante: decorrenza dei termini di custodia. Da quel momento, diviene uno dei tanti immigrati clandestini in giro per il nostro Paese.
Rispunta a Milano nell’aprile scorso, quando i carabinieri lo notano mentre si aggira davanti a una farmacia in viale Monza. Kabobo viene accompagnato in caserma per l’identificazione e il fotosegnalamento, dopo i quali è rimesso in libertà in quanto non risulta avere «pendenze giuridiche». Poiché è ancora in attesa di scoprire l’esito del suo ricorso, non può essere allontanato dall’Italia – è la legge – e una volta messo alla porta dai militari, si trasforma in un senzatetto.
Non è ancora chiaro dove abbia trascorso l’ultimo periodo, anche se gli investigatori ritengono che possa aver dormito in strada in un rifugio di fortuna ricavato in un parchetto poco distante dal luogo delle aggressioni. Per tutto il giorno i carabinieri hanno setacciato la zona proprio in cerca di indizi in proposito ma, al momento in cui scriviamo, non ci sono conferme in tal senso.
La storia del ghanese non è diversa da quella di molti altri suoi connazionali. È legalmente autorizzato a stare in Italia, sebbene abbia precedenti penali, abbia partecipato a una sommossa, lanciato pietre, rubato, danneggiato proprietà e aggredito poliziotti. La sua condizione di immigrato clandestino non gli ha impedito di vivere all’aria aperta – esclusa la breve parentesi nel penitenziario di Lecce – né di continuare un’esistenza da balordo senza punti di riferimento. Fino alla mattina in cui ha deciso di prendere in mano un piccone e fare una strage.
Milano, chi sono le vittime del ghanese: operaio, pensionato, disoccupato
Un morto, due feriti gravi, altri due sfuggiti al piccone di Kabobo. E tutti scelti a caso
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11/05/2013
È una storia di casualità, ritardi e appuntamenti sbagliati. Se ieri mattina Alessandro Carolè fosse riuscito a dormire qualche minuto in più, non racconteremmo la sua tragica fine. Quarant’anni, disoccupato, viveva con l’anziana madre dopo la morte del padre, e proprio a lei ha rivolto le sue ultime parole prima di uscire di casa: «Non riesco a dormire, scendo a prendere un caffè al bar». Per lui «il bar» era il DelRosso in piazza Belloveso, dove era un habituè. «Una brava persona, aveva già sofferto molto nella vita», ricorda un residente con la voce rotta. «Sarebbe potuto capitare a chiunque. Anch’io passo di lì molto presto per fare colazione».
È questa la cosa che colpisce di più, l’assoluta casualità nella scelta delle vittime. Carolè è stato ucciso dalla sua insonnia, gli altri hanno rischiato di fare la stessa fine (qualcuno è possibile la faccia nelle prossime ore) lungo un’intricata sequenza di azioni che li hanno fatti arrivare puntuali all’appuntamento sbagliato.
Andrea Carfora, 24 anni, stava tornando a casa dopo il turno da commesso in un supermercato: stanco e assonnato, non si è accorto dell’energumeno con un piccone in mano.
Francesco Niro invece stava iniziando la giornata di lavoro come operaio, ma all’improvviso si è ritrovato a correre all’ospedale (stoicamente e sulle sue gambe) per una ferita alla testa.
C’è poi chi quell’appuntamento l’ha rimandato all’ultimo minuto, come l’imbianchino Antonio Morisco, che ha incrociato in via Monte Grivola l’africano sporco di sangue e ha pensato bene di tuffarsi oltre il portone di casa il prima possibile. Solo guardando la tv ha scoperto che «quel nero con gli occhi da pazzo» aveva fatto una strage, aggredendo subito dopo altre tre persone.
Il primo di queste, Ermanno Masini, è un pensionato di 64 anni originario di un paesino in provincia di Modena, che vive da solo ed era uscito all’alba per portare a spasso il cagnolino (del quale non si hanno più notizie).
Duecento metri più avanti, Kabobo ha incontrato Carolè davanti al bar, pronto a bere il suo agognato caffè. Mentre colpiva un corpo ormai senza vita, dall’altra parte dell’isolato Daniele Carella, di 21 anni, avevea appena parcheggiato il furgoncino col quale tutte le mattine consegnava i giornali assieme al padre. Se avesse sbagliato strada, si fosse fermato a un semaforo in più, se solo ci fosse stato più traffico, ora non sarebbe in un letto dell’ospedale Niguarda in condizioni disperate, con la testa fracassata da quell’energumeno che non avrebbe dovuto essere in circolazione.