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tracce di arsenico sono state trovate nel pane prodotto nella Provincia di Viterbo. Stando ai risultati delle analisi condotte dall’Istituto Superiore di Sanità (ISS), in collaborazione con l’Ordine dei Medici, anche la catena alimentare sarebbe stata intaccata dall’emergenza. Il rischio per i cittadini non sarebbe più rappresentato quindi soltanto dal consumo diretto di acqua contaminata.

>>Scopri le possibili sanzioni per l’Italia a causa dell’emergenza arsenico nel Lazio



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Le analisi dell’ISS interesseranno nelle prossime settimane anche frutta e ortaggi, così da cercare di realizzare un quadro completo della diffusione dell’arsenico nella catena alimentare viterbese. Ad essere interessati dall’emergenza sono però, all’interno della Regione Lazio, anche Comuni appartenenti alle province di Roma e Latina. Un’emergenza che promette di risolvere nel minor tempo possibile il neo presidente Nicola Zingaretti, d’intesa con il ministro della Sanità Renato Balduzzi. Quest’ultimo assicura in tempi brevi la creazione di una speciale unità di crisi:

Con il Presidente Nicola Zingaretti e con tutti gli enti locali interessati avvieremo in tempi strettissimi le misure urgenti per far fronte ai disagi della popolazione in seguito all’emergenza da tempo creatasi a causa delle alte concentrazioni d’arsenico nell’acqua nel Viterbese.

>>Leggi la sentenza del TAR che ha condannato i ministeri dell’Ambiente e della Sanità

Conferme dalla Regione arrivano tramite Riccardo Valentini, capogruppo di Lista per il Lazio (il listino personale di Zingaretti alle elezioni regionali). Previsto un incontro per oggi durante il quale verranno messi a punto i prossimi passi per la risoluzione dell’emergenza:

Durante l’incontro proporrò la costituzione di una task force per la Tuscia con la partecipazione di Università, Asl, Ato, Talete, organizzazioni professionali e di categoria e le associazioni dei consumatori. Purtroppo, nonostante siano trascorsi diversi anni dal decreto legislativo che imponeva ai singoli Comuni di adeguarsi alle normative europee (datato 2 febbraio 2001), siamo ancora all’anno zero. Ma questa volta la musica deve cambiare.

È necessario realizzare tutti i dearsenificatori previsti e sviluppare un nuovo approccio che, con minor costi di manutenzione, garantisca i cittadini sul lungo periodo, facendo dell’arsenico un ricordo lontano.

>>Leggi la richiesta del Codacons per analisi del sangue periodiche per i cittadini a rischio

Preoccupazione per i nuovi sviluppi della vicenda espressa anche dal Codacons, che tramite il suo presidente Carlo Rienzi torna a chiedere la chiusura degli esercizi commerciali coinvolti. L’associazione dei consumatori ha inoltre promosso una richiesta di risarcimento per evitare il possibile fallimento di queste aziende:

I rischi per la salute legati all’arsenico sono elevatissimi, al punto da portare oggi il Codacons a chiedere alle Asl territoriali di intervenire, disponendo la chiusura di quegli esercizi commerciali costretti ad utilizzare acque contaminate per la produzione di alimenti.

Le attività come panetterie, ristoranti, bar, pasticcerie, operanti nel Lazio, non hanno però alcuna colpa per la grave situazione determinatasi: per tale motivo abbiamo deciso di intervenire in loro soccorso, avviando un’azione risarcitoria contro i ministeri competenti e la Regione Lazio, volta a far ottenere ai gestori di esercizi commerciali adibiti alla produzione di beni alimentari che prevedono l’utilizzo di acqua, il risarcimento dei danni subiti, fino ad un massimo di 1 milione di euro ad attività.

La cittadinanza di Viterbo ha nel frattempo dato via ad un’insolita quanto significativa protesta: uno sciopero della sete a staffetta organizzato da uno dei candidati sindaco per il Comune, Filippo Rossi. L’invito viene rivolto a tutti i cittadini, a prescindere dal loro schieramento politico. Lo stesso Rossi, che darà il via all’iniziativa, ne spiega le modalità di svolgimento:

Un giorno ciascuno passandoci simbolicamente il testimone della protesta contro una situazione che va avanti da anni sulla pelle delle persone. Invito tutti i cittadini a partecipare, al di là di ogni schieramento politico. Non si possono più costringere le famiglie a comprare l’acqua nei supermercati o andare alle fontanelle come si faceva fino a un secolo fa.



















Tracce di arsenico in 360 birre tedesche. Lo denunciano gli esperti del TUM (Technische Universitat Munchen) all’interno di uno studio reso pubblico in occasione del 245esimo incontro dell’American Chemical Society. Un problema che riguarderebbe in particolare il processo di depurazione dell’acqua realizzato mediante filtrazione a terra di diatomee.

>>Leggi le proteste dei vegetariani per la presenza di colla di pesce nella birra Guinness

Proprio questo processo di pulizia dell’acqua inquinata lascerebbe le tracce di arsenico rinvenute nelle birre tedesche. Le acque reflue passerebbero all’interno di uno strato di terriccio arricchito con fossili silicei appartenenti a microscopici organismi marini. Una tecnica che a quanto pare rilascerebbe nel liquido fuoriuscito anche quantità di ferro e altri metalli.

>>Scopri come preparare la birra in casa

La ricerca portata avanti dal professor Mehmet Coelhan ha preso in considerazione il possibile grado di inquinamento dei tre principali ingredienti della birra: acqua, malto e luppolo. Da quanto emerso i quantitativi di arsenico registrati verrebbero proprio dall’acqua, che le tecniche di depurazione arricchirebbero con tracce di arsenico:

Siamo giunti alla conclusione che la farina fossile è una significativa fonte di contaminazione da arsenico della birra. Tuttavia i livelli risultanti sono solo lievemente elevati ed è improbabile che chi beva le birre prodotte con questa tecnica diffusa si ammali.

Livelli non pericolosi per la salute assicura il ricercatore, al contrario di quanto si è registrato e continua a registrarsi nel Lazio e in alcune altre regioni italiane. Malgrado si tratti di quantitativi minimi resta presente, prosegue il ricercatore, la necessità che i consumatori vengano avvisati della presenza e della possibile pericolosità di tali elementi. Coelhan sottolinea infine che il problema non è legato in via esclusiva alla birra, ma che riguarda un potenziale molto più vasto di bevande. Tra queste vi è ad esempio la produzione di vino.
















Ci sono tantissime fonti di inquinamento nel nostro Paese a minacciare l’ecosistema locale e la nostra salute. Molte di queste sono note ed argomento di dibattito quotidiano: lo smog, il cattivo smaltimento di rifiuti, lo scarico a mare di residui industriali, ecc. Ci sono, però, pericoli meno noti e quantomeno imprevedibili.

Ad esempio in Italia si muore a causa delle armi chimiche. Ovviamente – e per fortuna – non perché esse siano comunemente usate nel nostro territorio, ma perché per vario motivo giacciono nei mari che circondano la nostra penisola o contribuiscono alla contaminazione dei nostri territori industriali. A svelare questo vero e proprio segreto, in molti casi persino “segreto di Stato”, è stata Legambiente con una conferenza tenuta ieri per presentare il dossier. Per richiedere la bonifica di questi siti e per denunciare queste situazioni, è nato il Coordinamento Nazionale Bonifica Armi Chimiche, al quale ha aderito l’associazione. L’obiettivo – aggiunge – è di promuovere azioni per la difesa dell’ambiente e la protezione contro i rischi derivanti dall’esposizione a sostanze tossiche provenienti dalle armi chimiche e dalla mancata bonifica dei siti civili e militari a terra, nei laghi, nei fiumi e nel mare, in cui queste armi sono state fabbricate o abbandonate. Su questo ci aspettiamo un cambio di passo e un segnale di protagonismo e trasparenza da parte delle istituzioni, a partire dal Ministero della Difesa e dal Parlamento.

Come leggiamo nel comunicato dell’associazione, diverse sono le località italiane minacciate dalle armi chimiche: Molfetta, Napoli, Pesaro, Viterbo. Ognuna racconta una Storia diversa e condizioni di pericolo simili. In alcuni casi vecchie fabbriche di armi hanno scaricato per anni i loro prodotti in mare o sul territorio (magari dentro barili, ormai vetusti), in altri si paga lo scotto dei massicci bombardamenti in Kosovo, che si sono sommati a quelli della Seconda Guerra Mondiale che già giacevano indisturbati sul fondo dell’Adriatico. In tutti i casi, come detto, è la nostra salute e quella dei sistemi naturali interessati ad essere posta sotto serio pericolo:

Silenziosi e letali. Sono oltre 30mila gli ordigni inabissati nel sud del mare adriatico, di cui 10mila solo nel porto di Molfetta e di fronte a Torre Gavetone, a nord di Bari; 13mila i proiettili e 438 i barili contenenti pericolose sostanze tossiche inabissati invece nel meraviglioso golfo di Napoli; 4300 le bombe all’iprite e 84 tonnellate di testate all’arsenico nel mare antistante Pesaro. Ci sono poi i laboratori e i depositi di armi chimiche della Chemical City in provincia di Viterbo e l’industria bellica nella Valle del Sacco a Colleferro. Infine sono migliaia le bomblets, piccoli ordigni derivanti dall’apertura delle bombe a grappolo, sganciati dagli aerei Nato sui fondali marini del basso Adriatico durante la guerra in Kosovo. Questi arsenali, prodotti dall’industria bellica italiana dagli anni ‘20 fino alla seconda guerra mondiale e coperti per anni dal Segreto di Stato, continuano a rilasciare pericolose sostante tossiche che da più di ottant’anni causano gravi danni all’ecosistema della Penisola e alla salute delle popolazioni locali




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agghiacciante anche l’elenco delle sostanze disperse, che vanno dall’iprite all’arsenico. Un vero e proprio bollettino di guerra:

Legambiente richiama allora le istituzioni italiane ad un senso si responsabilità. Come ben spiegato da Stefano Ciafani, vicepresidente dell’associazione:

Per richiedere la bonifica di questi siti e per denunciare queste situazioni, è nato il Coordinamento Nazionale Bonifica Armi Chimiche, al quale ha aderito l’associazione. L’obiettivo è di promuovere azioni per la difesa dell’ambiente e la protezione contro i rischi derivanti dall’esposizione a sostanze tossiche provenienti dalle armi chimiche e dalla mancata bonifica dei siti civili e militari a terra, nei laghi, nei fiumi e nel mare, in cui queste armi sono state fabbricate o abbandonate. Su questo ci aspettiamo un cambio di passo e un segnale di protagonismo e trasparenza da parte delle istituzioni, a partire dal Ministero della Difesa e dal Parlamento.

Per un completo resoconto della situazione, sito per sito, vi rimandiamo al dossier di Legambiente. Noi ci uniamo all’appello perché si proceda al più presto ad una bonifica seria e completa.

Fonti: Legambiente.it





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Cresce la spesa per il cibo biologico in Italia. Il settore ha registrato nel 2011, secondo quanto rilevato da Ismea-Gfk-Eurisko, un aumento dell’8,9% rispetto al 2010. In testa prodotti caseari, uova, bevande analcoliche, prodotti dolciari e snack. Tendenza opposta rispetto ai consumi tradizionali, che nello stesso periodo hanno fatto registrare una netta flessione. Tra questi anche pasta e pane, che registrano un -3,2% rispetto al 2010.

Biologico in netta crescita, con l’aumento della spesa che va dal +21,4% delle uova al 16% delle bevande analcoliche. Ottimi anche i risultati per prodotti caseari (16,2) mentre dolci e snack segnano una crescita del 16,1%. Un giro d’affari complessivo che si stima intorno ad 1 miliardo e 550 milioni di euro, cifra che posiziona il consumo italiano al quinto posto al mondo dietro Usa, Germania, Francia, Regno Unito e Canada:

Tutte le macro ripartizioni territoriali – rileva ancora l’Ismea – sono state interessate da una crescita degli acquisti nel corso del 2011, piu’ accentuata al Sud (+19,2%). Le regioni settentrionali mantengono pero’ un peso preponderante, con oltre il 70% di incidenza sul totale.

Piccolo passo indietro per l’Italia per quanto riguarda invece le coltivazioni biologiche, con il primato europeo che da un paio d’anni è attribuito alla Spagna grazie ai suoi 1,46 milioni di ettari (0,35 mln in più rispetto al nostro Paese, n.d.r.).
 

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