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COMUNISTI CRIMINALI

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Foibe, Gasparri parla al sacrario: strappo choc del Pd che se ne va

Giorno del ricordo al sacrario di Basovizza: Gasparri prende la parola, i dem vanno via e fanno polemica: "Irrituale"


Alberto Giorgi - Lun, 10/02/2020 - 16:52






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Polemiche e veleni anche nel giorno del ricordo delle foibe: il sacrario di Basovizza, infatti, è stato teatro dello scontro politico.
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Durante la commemorazione, quando Maurizio Gasparri ha preso la parola, la delegazione del Partito Democratico se ne è andata in dissenso.
Debora Serracchaini, Luigi Zanda, Tatjana Rojc, il vicepresidente del Consiglio regionale del Friuli Venezia Giulia Francesco Russo e la segretaria dem di Trieste Laura Famulari, hanno lasciato la cerimonia dopo l'intervento del presidente della regione, il leghista Massimiliano Fedriga, proprio quando ha iniziato a parlare il senatore di Forza Italia, in rappresentanza di Palazzo Madama.

Gli esponenti del "piddì" protestano per la "irritualità del caso". Peraltro, anche quando il governatore Fedriga ha preso la parola, tra i dem vi è stato qualche mugugno. Quindi, il gesto plateale quando il microfono è passato all'azzurro.
In seguito, la Serracchiani ha sbottato sui social: "Come ogni anno il Partito Democratico è presente alla Foiba di Basovizza a rendere omaggio alle vittime e agli Esuli dell'Istria, Fiume e Dalmazia. Il #GiornodelRicordo deve rimanere una solennità in cui si condivide pietà e giustizia, non un palcoscenico per la destra sovranista…".
Durissimo il commento di replica di Maria Rizzotti, vicepresidente dei senatori forzisti: "I dirigenti e i deputati del Pd che hanno abbandonato la cerimonia alla foiba di Basovizza in segno di protesta verso il presidente Gasparri dovrebbero vergognarsi. Non ci sono steccati né divisioni di parte o di partito in una giornata come quella del Ricordo. Agendo in questo modo invece hanno dimostrato alcun interesse verso la memoria delle tante vittime italiane e soprattutto hanno offeso il Senato, rappresentato appunto dal collega Gasparri". L'azzurra, quindi, rincara la dose e attacca il Partito Democratico: "Temo che il Pd attacchi perché spera ci si dimentichi del vergognoso convegno Anpi in Senato cui si negava la verità sulle foibe…".
Francesco Lollobrigida, capogruppo di Fratelli d'Italia a Palazzo Madama, fa eco alla collega: "
I parlamentari del Pd abbandonano la cerimonia presso la Foiba di Basovizza perchè, dicono, il luogo è diventato un palcoscenico della destra sovranista? Evidentemente per loro è insopportabile ascoltare la verità sui crimini del comunismo. Il comunismo, almeno quanto il nazismo, è stato protagonista di eccidi di una ferocia diabolica". Il politico di FdI, dunque, ha aggiunto: "Sembra che la sparuta rappresentanza della sinistra presente a Basovizza sia intollerante a questo argomento".
Infine, questa la posizione della deputata triestina di FI Sandra Savino, che è anche coordinatrice regionale del partito in Fvg: "L'intervento di Gasparri è stato quello che ha raccolto più consenso, pur nella sobrietà di una cerimonia che non è un comizio di piazza, come forse immagina la Serracchiani".



FALSI BUGIARDI IPOCRITI MI FERMO QUI...............A SI ASSASSINI DEL POPOLO ITALIANO.

SE NE VANNO ?

QUESTI NON SONO NUMERI MA PERSONE ESSERI UMANI .
 
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"Io ho vissuto quell'orrore e ancora oggi ho gli incubi"

Il grande campione di boxe narra la sua infanzia perduta a causa dell'esodo degli italiani dai territori occupati

Fausto Biloslavo - Lun, 10/02/2020 - 19:09





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«A chi, al nostro rientro forzato in Italia, ci ha accolto con insulti, con offese, con brutalità. A chi per oltre mezzo secolo ha negato le migliaia di morti, le violenze, le foibe.
A chi, ancora oggi, nega.
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Io non ho mai dimenticato chi sono, da dove vengo, le mie origini. Mi chiamo Nino, Nino Benvenuti», scrive l'esule campione nell'introduzione al fumetto autobiografico pubblicato da Ferrogallico in occasione del giorno del Ricordo. Il Giornale ha raggiunto Benvenuti al telefono e subito scatta lo slang, il dialetto triestino con il pugile, che del capoluogo giuliano ha fatto la sua seconda casa. La prima era Isola d'Istria, dove è nato nel 1938.
Alla fine della Seconda guerra mondiale i partigiani di Tito prelevano il fratello più grande, Eliano, sospettato di essere un nemico del popolo anche se non aveva neppure l'età per avere fatto qualcosa di male. Un conto è vivere in guerra, sapendo di esserlo.
Altro è, a guerra finita, continuare a naufragare nel terrore, nella paura. Quella gente (i titini, nda) aveva la consapevolezza, la certezza di essere nella totale immunità», racconta Nino con l'aiuto della sua storica addetta stampa, Anita Madaluni. Eliano ha appena 16 anni e zoppica per la poliomielite, ma lo sbattono lo stesso dietro le sbarre per sette mesi. E sul libro illustrato Nino Benvenuti - il mio esodo dall'Istria scritto con Mauro Grimaldi, il disegnatore, Giuseppe Botte, tratteggia il futuro campione di pugilato in bicicletta, che porta ogni giorno al fratello un pasto caldo nel carcere di Capodistria.
L'ondata di violenze dei partigiani di Tito a guerra finita si sta diffondendo nella penisola istriana. Per Benvenuti le foibe, che hanno provocato l'esodo, rappresentano «un vero e proprio incubo che, ancora oggi, alcune notti, torna ad angosciarmi. Le foibe sono una storia di violenze e crimini gratuiti. Orrore puro». Il ragazzo che conquisterà il titolo di campione del mondo dei pesi medi ricorda la paura a guerra finita: «Si viveva nell'angoscia di essere sequestrati o uccisi da un momento all'altro, per italianismo (così lo definivano con disprezzo!). Se Hitler fu il male assoluto, Ozna (la polizia segreta di Tito, nda) e foibe non sono stati certo da meno». Neppure gli animali da compagnia delle famiglie italiane vengono risparmiate per stupido divertimento. Benvenuti ancora oggi non dimentica Bianca, una bastardina, compagna di giochi, che una mattina esce come sempre a correre verso la spiaggia. Il fumetto descrive bene la scena che Nino ha ricordato nelle sue memorie: «A distanza di una ventina di metri una guardia con la stella rossa sul berretto punta il fucile su Bianca e spara senza motivo. Poi si mette a ridere mentre la cagnolina sta morendo sulla spiaggia». Nella nuova Jugoslavia comunista fondata da Tito, il papà parte per primo, ma la nonna rimane con il giovane nipote. Nino comincia a scambiare i primi pugni con i ragazzini slavi che lo accusano di essere «uno sporco italiano». In cantina improvvisa una mini palestra, mentre gli esuli si imbarcano sulla motonave Toscana abbandonando tutto. Luciano Zorzenon, un palombaro assoldato per il recupero dei relitti della guerra, nota il giovane Nino e lo porta all'accademia pugilistica di Trieste. Nel libro illustrato sulla sua storia istriana un allenatore lo definisce «un po' magro, braccia lunghe, sembra un ragno», ma Nino si impegna come se volesse dimostrare a tutti che gli italiani combattono, anche se solo sul ring. L'esordio del futuro campione è nel 1951, in piazza ad Isola, dove dimostra la stoffa che lo porterà a sfidare i più grandi pugili del mondo.

La doccia fredda arriva nel 1954, quando Trieste torna all'Italia, dopo l'occupazione alleata e le autorità jugoslave nazionalizzano i beni di molti italiani rimasti in Istria compresa la casa di Benvenuti. Nino è costretto all'esodo definitivo a Trieste. «Fu bruttissimo per tanti istriani non venire accettati e sentirsi degli esuli in patria» racconta il campione. Poi arrivano i primi incontri importanti e nel 1960 la medaglia d'oro olimpica. «Per me lasciare Isola, il mio scoio sul mare è un dolore che porto dentro da sempre - spiega la leggenda del pugilato - Non ho mai voluto strumentalizzare queste tragiche vicende o definirmi esule prima degli incontri come una medaglia. Ma sono sempre stato orgoglioso di essere un italiano d'Istria».
Quando sale sul ring contro Emile Griffith e Carlos Monzòn per il titolo mondiale lega sempre agli stivaletti la fede della mamma Dora.
«Mi ha sempre insegnato a non provare rancore, né odio, neppure per i carnefici» di Tito che hanno costretto almeno 250mila italiani ad imboccare la via dell'esodo.
I beni abbandonati della famiglia Benvenuti sono state risarciti «poche centinaia di euro, una beffa, una somma ridicola. Meglio non pensarci». E la tragedia delle foibe è stata celata per decenni. «Da parte degli esuli - me compreso - per paura.
Da parte della storia... bah, che dire, è un buco nero». Per questo ha aderito all'idea del libro illustrato sulla sua storia istriana con «il sogno che venga diffuso nelle scuole di ogni ordine e grado, nelle palestre, nei centri di aggregazione giovanili». Ignazio La Russa, vicepresidente dell'assemblea di Palazzo Madama, vuole «proporre al presidente della Repubblica la nomina di Nino Benvenuti a senatore a vita».
L'esule campione sa che prima o dopo tornerà a casa, per sempre: «Quando non ci sarò più voglio che le mie ceneri vengano sparse nel mare dal mio scoglio, lì, a Isola, dove giocavo da bambino».


MALEDETTI IN ETERNO.
 

aragon56

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mi dici tu che sei un esperto quanti uomini e donne iugoslave sono state trucidate dal glorioso esercito italiano
durante l occupazione jugoslava per mettere al potere gli ustascià ti ricordo se non lo sai ma non credo che non si facevano prigionieri tutti passati x le armi uomini donne e feriti ma questo non lo riportate non lo dite
la verita la manipolate nel modo che vi fa piu comodo chissa poi perche i titini l avevano a morte con gli italiani
 

Alien.

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Cento anni di comunismo e cento milioni di morti. Una catastrofe per l'umanità
L’Unione sovietica ha rimodellato la natura umana, scatenato il caos intellettuale e lasciato dietro di sé un grande raccolto di dolore. Scrive il Wall Street Journal (6/11)

27 Novembre 2017 alle 08:53
Cento anni di comunismo e cento milioni di morti. Una catastrofe per l'umanità




Cento anni fa i bolscevichi presero il Palazzo d’Inverno a San Pietroburgo dando inizio “a una serie di eventi che avrebbero portato alla morte di milioni di persone e avrebbero inflitto una ferita quasi fatale alla civiltà occidentale”, scrive David Satter sul Wall Street Journal. I rivoluzionari riuscirono a occupare le stazioni, gli uffici postali e i telegrafi mentre la città dormiva e, quando i cittadini si svegliarono, trovarono il loro universo capovolto. I bolscevichi dicevano di voler abolire la proprietà privata, ma il vero obiettivo era spirituale: trasformare l’ideologia marxista-leninista in realtà. Per la prima volta si posero le basi per uno stato esplicitamente ateo e quindi incompatibile con i valori su cui si fondava la civiltà occidentale per la quale stato e società erano sovrastati da un potere superiore.

Il golpe bolscevico ha avuto due conseguenze. Nelle nazioni che si sono lasciate influenzare la rivoluzione ha svuotato la società della morale, ha degradato gli individui e li ha resi degli ingranaggi della macchina statale.
I comunisti hanno ucciso, eliminando il valore della vita stessa e i sopravvissuti hanno perso la loro coscienza individuale. Ma i bolscevichi non si sono limitati a influenzare queste nazioni. A occidente, il comunismo ha intaccato la società sovvertendo i suoi valori e mettendoli in discussione. Ha creato una confusione politica che perdura fino ai nostri giorni.






Durante un discorso del 1920 al Komsomol, Lenin ha detto che i comunisti subordinavano la morale alla lotta di classe. Tutto ciò che fosse in grado di distruggere “la vecchia società sfruttatrice e che aiutasse a costruire una nuova società comunista” era considerato positivo. Questo approccio ha separato il peccato dalla responsabilità. Martyn Latsis, ufficiale della Cheka, la polizia segreta, nel 1918 scrisse come dovesse essere condotto un interrogatorio: “La nostra guerra non è contro gli individui. Noi stiamo sterminando la borghesia in quanto classe sociale. Non cerchiamo la prova che l’atto di cui qualcuno è stato accusato sia stato effettivamente commesso.
Come prima cosa bisogna chiedere a quale classe sociale appartiene un individuo. Questo determinerà il suo destino”.

Queste convinzioni furono alla base di decenni di omicidi”, scrive Satter, “non meno di venti milioni di cittadini sovietici vennero uccisi dalle politiche repressive. Questo numero non include i milioni di vite spezzate dalle guerre, dalle epidemie e dalla fame generate in modo prevedibile dai principi del bolscevismo”. Si contano 200.000 vittime del terrore rosso tra il 1918 e il 1920, 11 milioni di persone decedute o per la fame o per la dekulakizzazione, 700.000 esecuzioni tra il 1937 e il 1938, almeno 2.700.000 prigionieri morti nei gulag. Alla lista bisognerebbe aggiungere un milione di detenuti, che durante la Seconda guerra mondiale vennero liberati dai campi di lavoro e impiegati nell’Armata rossa andando incontro a morte certa, partigiani e civili uccisi in Ucraina e nelle repubbliche baltiche. Se a questo novero aggiungiamo anche le morti causate dai regimi supportati dall’Unione sovietica – Corea del nord, Cina, Cuba, Vietnam, Cambogia e altre nazioni dell’Europa orientale – il numero totale delle vittime sfiora i 100.000.000 e “questo basta per fare del comunismo la più grande catastrofe dell’umanità”.

Il risultato di queste morti doveva essere la creazione di un uomo nuovo, pronto ad agire nel nome della causa sovietica. La battaglia di Stalingrado è il paradigma di tutto ciò. Quando le unità di blocco dell’Armata rossa spararono sui soldati che tentavano la fuga e sui civili che cercavano rifugio dalla parte tedesca, ai bambini che andavano a riempire le bottiglie dei soldati del Reich con l’acqua del Volga, il generale Vasily Chuikov, comandante a Stalingrado, cercava di giustificare queste azioni affermando: “Un cittadino sovietico non può concepire la propria vita al di fuori delle necessità della patria”.

Questi sentimenti permangono ancora oggi. Quando nel 2008 la Duma ammise che la carestia del 1932 fu causata dalle requisizioni di grano ordinate dallo stato per finanziare l’industrializzazione, aggiunse che i giganti industriali dell’Urss, il mulino di Magnitogorsk e la diga del fiume Dnepr, sarebbero stati “eterni monumenti” per le vittime.

L’Unione sovietica ha rimodellato la natura umana, ma ha anche diffuso il caos intellettuale. Il termine “politicamente corretto” trae le sue origini dall’assunto secondo il quale il socialismo, un sistema di proprietà collettiva, in sé era virtuoso, senza avere la necessità di valutare il suo operato alla luce di criteri morali trascendenti.

Quando i bolscevichi si presero la Russia, alcuni intellettuali occidentali, influenzati dalla stessa mancanza di etica, chiusero gli occhi di fronte alle atrocità del comunismo. Quando gli omicidi divennero troppo ovvi per essere negati, “i simpatizzanti iniziarono a giustificare le crudeltà dicendo che i sovietici facevano tutto con nobili intenzioni”.

Ma a occidente prevaleva una profonda indifferenza. La Russia veniva utilizzata come pretesto per risolvere le liti politiche. Come scrive lo storico Robert Conquest, il ragionamento era semplice: “Il capitalismo era ingiusto, il socialismo avrebbe potuto mettere fine all’ingiustizia, quindi andava sostenuto senza condizioni”.

L’Unione sovietica è roba del passato ma è necessario ricordare quanto scrisse il filosofo russo Nikolaj Berdyaev: “La nostra gioventù istruita non riesce ad ammette il significato intrinseco e indipendente delle parole scolarizzazione, filosofia, erudizione, illuminismo, università, lo subordinano agli interessi della politica, dei partiti, dei movimenti e dei circoli”.

Se c’è una lezione che possiamo trarre dal secolo comunista è che un potere indipendente dai principi universali della morale non può avere ripensamenti, dal momento che “è la convinzione da cui dipende tutta la civilizzazione”.

POI SI DAL FASCISTA A CHIUNQUE IO DIREI ###COMUNISTA###


PECCATO CHE RELIGIONE E PARTITI POLITICI DIVIDANO UN GRANDE POPOLO "ITALIANO"

IL COMUNISMO è UN VIRUS CHE VERRA DEBELLATO CON UN LAPIS SE CE NE DARANNO LA POSSIBILITA'.




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aragon56

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si continua con le tue menate sul comunismo ma nn hai risposto alla mia domanda
ps ( cambia pusher ) ti da roba avariata
 

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Sergio Ramelli, il ragazzo con il Ciao che venne ucciso perché «fascista»
In quegli anni di odio, che divisero i ragazzi di una generazione, Ramelli — con il suo Ciao e i suoi capelli lunghi — venne isolato nella sua scuola, perseguitato, ucciso a colpi di chiave inglese. Gli assassini scrissero alla madre: «Pensava in modo diverso da noi»
di Walter Veltroni


Sergio Ramelli, il ragazzo con il Ciao che venne ucciso perché «fascista»

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Di storie come quella che sto per raccontare ce ne sono state molte, troppe, quando eravamo ragazzi. Vale la pena usare la memoria, non solo per un giorno, oggi che vediamo l’odio riemergere sui muri delle case di deportate morte da tempo e impazzare incontrollato su schermi tecnologici e moderni.

Bisognerebbe scrivere l’antologia di Spoon River di quegli anni balordi e bastardi. Sono tanti, i ragazzi che non ci sono più. Potevano avere una divisa addosso, potevano essere di destra, potevano essere di sinistra. «Tutti, tutti dormono sulla collina».

Ho raccontato su queste colonne la storia di Mario Amato — magistrato coraggioso o forse solo magistrato — che fu ucciso da un commando di giovani fascisti. Ho scritto di Carlo Castellano, dirigente dell’Ansaldo iscritto al Pci, la cui vita è stata segnata dai colpi di pistola sparati da giovani che tirarono il grilletto sulle sue gambe in «nome del proletariato». Oggi voglio parlare di Sergio Ramelli, un ragazzo con i capelli lunghi che fu aggredito a Milano la mattina del 13 marzo del 1975 a colpi di chiave inglese e morì il 29 di aprile.

Ma bisogna fare un passo indietro. Questo ragazzo, in niente dissimile fisicamente dai suoi coetanei di sinistra, ha idee di destra. Pier Paolo Pasolini, a smentire una diversità quasi antropologica, aveva scritto in una lettera a Italo Calvino: «Quando parlo di omologazione di tutti i giovani, per cui, dal suo corpo, dal suo comportamento e dalla sua ideologia inconscia e reale (l’edonismo consumistico) un giovane fascista non può essere distinto da tutti gli altri giovani, enuncio un fenomeno generale».

Sergio non si distingue «da tutti gli altri giovani» ma ha idee di destra e non le nasconde. Non è, racconta chi lo ha conosciuto, un fanatico. Da poco ha aderito al Fronte della Gioventù. Ma è capitato in una scuola dove le sue idee non sono tollerate. Tutto comincia con un compito in classe. Il professore chiede ai ragazzi di descrivere un episodio che li abbia impressionati. E Sergio scrive un tema sul primo assassinio delle Brigate Rosse, quello compiuto a Padova nel 1974, in cui dei terroristi erano entrati in una sede del Msi e avevano ucciso a freddo Graziano Giralucci e Giuseppe Mazzola. Quel tema fu l’inizio della sua fine. I suoi compagni ne vennero a conoscenza e i membri del collettivo politico di Avanguardia Operaia affissero i fogli di carta protocollo al muro sottolineandone le frasi e commentandolo con la scritta: «Ecco il tema di un fascista».

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Sergio Ramelli, il giovane militante di destra ucciso a 18 anni

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Comincia così il calvario di Sergio nella sua scuola. Lascio il racconto dei vari momenti a Luca Telese che, con il suo «Cuori neri», ha provveduto a integrare la memoria di quegli anni orrendi. «Una mattina del gennaio 1975, i ragazzi del collettivo extraparlamentare del Molinari entrano nella classe di Sergio. Interrompono la lezione, zittiscono le flebili resistenze del professore, prelevano Ramelli dal suo banco e lo trascinano fuori. Nessuno si azzarda a fermarli. In corridoio inizia un processo sommario: sputi in faccia, insulti: “fascista, vergognati!”. Poi, quando lo lasciano andare, una minaccia: “Con te abbiamo appena iniziato, Ramelli...”».

È la mattina del 13 gennaio 1975, Sergio sta uscendo da scuola, con lo zaino dei libri in spalla. Basta solo un segnale che subito viene raggiunto da un gruppo di ragazzi, molti dei quali, più grandi di lui, non frequentano nemmeno la sua scuola. Dieci anni più tardi i testimoni di quel giorno ricostruiranno l’accaduto davanti ai magistrati, ma allora nessuno aiuta il ragazzo. Sergio viene fermato, spintonato, costretto a impugnare un pennello. Viene — si legge nell’ordinanza di rinvio a giudizio — «circondato in strada da circa ottanta studenti e costretto a cancellare con la vernice bianca scritte fasciste comparse sul muro dell’Istituto...». Racconta la madre Anita Ramelli: «Tornò a casa tutto sporco, ma a me disse solamente: “C’erano delle scritte e hanno voluto che le cancellassi”. Non voleva allarmarci, metterci in apprensione...».

La giornata più drammatica, nel corso della lunga persecuzione che prepara il delitto, è quella del 3 febbraio 1975. Dopo molte discussioni, papà e mamma Ramelli hanno deciso di imporre al figlio di abbandonare il Molinari. A malincuore Sergio è costretto ad accettare, e quella mattina entra a scuola accompagnato dal padre per sbrigare le necessarie pratiche burocratiche. Purtroppo li stanno aspettando: nel corridoio della scuola padre e figlio sono aggrediti, picchiati e costretti a passare fra due file di studenti per un violento rituale di sottomissione. Sembra la scena di un film di Kubrick, sembra un’arancia meccanica in salsa meneghina, e ancora una volta bisogna lasciare la parola ai magistrati Grigo e Salvini per sapere come si conclude questa terrificante passeggiata: «Il ragazzo era stato colpito ed era svenuto, mentre lo stesso preside [sic] e i professori che avevano scortato il Ramelli e il padre verso l’uscita erano stati malmenati. Ancora più sconcertante la testimonianza del professor Melitton, secondo cui la preside aggredì il padre e gli disse: “Ma non vede che lei e suo figlio siete un motivo di turbamento per la scuola?”».

Un suo amico di infanzia, Alfredo, mi parla di Sergio. «Siamo cresciuti giocando a calcio insieme all’oratorio. Poi abbiamo scelto due scuole diverse. Giravamo con la moto, ne comprammo persino una a metà. Non eravamo di destra, ma non eravamo di sinistra. E tanto bastava a etichettarci come fascisti. Lui era uno serio, deciso, non uno che tirava indietro la gamba, neanche al calcio. Altrimenti non avrebbe resistito a tutto quello che gli hanno fatto a scuola. Si sentiva isolato, accerchiato, uno contro mille. Cambiò istituto. Ma non bastò. Pochi giorni prima che lo aggredissero eravamo andati insieme al cinema Corso per vedere Chinatown di Polanski».

Sono giorni orribili, a Milano. La città è l’epicentro della strategia della tensione, definizione non impropria. Tutto comincia non con Piazza Fontana, ma con la morte dell’agente Annarumma, nel novembre del 1969, ucciso durante scontri tra manifestanti marxisti-leninisti e polizia. Siamo nel pieno dell’autunno caldo. Che diventerà presto inverno.





Il giorno dei funerali la città partecipa tutta intera. La tensione è alle stelle. La destra cavalca il dolore e l’indignazione. Un giovane con un fazzoletto rosso al collo si avvicina alla bara e la folla, nella quale ci sono molti neofascisti, lo aggredisce. Viene salvato a stento dalla polizia. Scrive la cronaca del Corriere della Sera: «Al salvataggio hanno contribuito l’onorevole Bettino Craxi, il sindacalista Giulio Polotti e Mario Aniasi, fratello del sindaco che si trovavano in quel punto. Poco lontano è avvenuto l’episodio di Capanna...». Mario Capanna viene aggredito e picchiato dai fascisti. C’è una foto che racconta quegli anni folli. Il commissario Calabresi — che un mese dopo si troverà al centro della vicenda Pinelli e al culmine di un’odiosa campagna denigratoria sarà ucciso vigliaccamente davanti alla sua 500 — accompagna Capanna, dopo averlo salvato dal linciaggio. A Milano, esattamente un anno dopo Piazza Fontana, ci sarà la morte, di nuovo durante scontri con la polizia, dello studente ventitreenne di sinistra Saverio Saltarelli. La sua morte verrà raccontata dolorosamente da una canzone di Virgilio Savona, raffinato intellettuale che guidava, gramscianamente, il popolare Quartetto Cetra. Poi moriranno Roberto Franceschi, e tanti altri. Ragazzi di destra e di sinistra. Sono anni di sangue, a Milano.

Achille Serra, che allora lavorava alla mobile, ricorda lo strano attentato alla Questura, nel 1973. Era il giorno della visita di Mariano Rumor, allora ministro dell’Interno. La bomba fu lanciata da Gianfranco Bertoli, un singolare anarchico. «Un anarchico di destra, un tipo fragile, al quale fu messa in mano da qualcuno la bomba da tirare», dice Serra. La Commissione stragi indagò sul suo caso «confermando la presenza di Bertoli tra coloro che furono inseriti, pur se con esito negativo, nella struttura di Gladio». Tempi bavosi, altro che nostalgia...

Il sangue continuerà a scorrere, in quegli anni milanesi. Ignazio La Russa, che è stato avvocato della famiglia Ramelli, racconta come tutto, per la destra, cambia con la morte dell’agente Marino, quando due esponenti neofascisti gettano bombe a mano contro la polizia. Fino a quel punto, dice La Russa, «avevamo un rapporto privilegiato con le forze dell’ordine. Quella follia cambiò tutto».

Sergio Ramelli, con il suo Ciao e i suoi capelli lunghi, torna a casa, quel giorno di marzo del 1975. Lo aggrediscono in due, ma molti altri sono nei dintorni. Lo colpiscono con delle chiavi inglesi al capo, con violenza, ripetutamente. Nel libro di Giraudo e altri, pubblicato da Sperling, Sergio Ramelli una storia che fa ancora paura è riportato un articolo de la Notte che descrive quei momenti: «Sergio Ramelli si è accasciato al suolo, ma gli aggressori, trasformando il pestaggio in vero linciaggio hanno continuato a infierire, mentre il volto si copriva di sangue, che usciva abbondantemente da una ferita al capo». Morirà dopo 47 giorni di agonia. I responsabili sono dei giovani del servizio d’ordine di Avanguardia Operaia. Poco dopo, non turbato dagli accadimenti, lo stesso commando diede fuoco a un bar «di destra» bruciandolo e rendendo invalido un ragazzo. Scriveranno dieci anni dopo alla madre: «Non avevamo nulla di personale contro suo figlio, non lo avevamo conosciuto né visto; ma, come troppo spesso accadeva in quel periodo, il fatto di pensare in modi diversi, automaticamente diventava causa di violenza gratuita e ingiustificabile. Nessuno di noi però aveva l’intenzione e neppure il semplice sospetto che tutto potesse finire in modo così terribile. Oggi riteniamo profondamente sbagliato, anzi inconcepibile il dirimere le differenze tra i diversi modi di pensare con la pratica della violenza». E oggi, diventati padri, sono certo lo pensino davvero.

La violenza nei confronti di Sergio è proseguita incredibilmente anche dopo la sua morte. Hanno continuato a fare scritte di minaccia al fratello, a devastare la vita di quella famiglia con quotidiane telefonate anonime, a minacciare il padre. Una vera persecuzione. Bisognava essere dei fanatici, o delle belve, per non avere neanche rispetto del dolore che straziava la famiglia Ramelli. Quel dolore che oggi indossa, con composta discrezione, la sorella, che allora aveva otto anni. Storie analoghe potrebbero raccontare le famiglie di tanti ragazzi di sinistra uccisi a coltellate o a colpi d’arma da fuoco, in tante parti d’Italia. Sono stati tanti, troppi.

Il magistrato Guido Salvini che, assieme al collega Maurizio Grigo, condusse le indagini dice oggi: «Non era terrorismo, era violenza politica. Scoprimmo gli autori dieci anni dopo. Durante l’indagine avvertimmo un senso di isolamento, come se certi ambienti della borghesia milanese non vedessero di buon occhio il fatto che si riaprisse quel capitolo. Fummo come accusati di processare il Sessantotto. I ragazzi, diventati grandi, erano professionisti, qualcuno aveva figli. Crollarono subito e confessarono. Ci colpì che non fosse un gruppo terroristico, ma un servizio d’ordine della facoltà di medicina, i cui membri non potevano non sapere cosa significhi colpire alla testa un ragazzo con una chiave inglese da due chili. Loro non lo conoscevano, Ramelli. Agirono sulla base di una foto che gli fu fornita dal comitato interno al Molinari. Non credo volessero uccidere, ma quello è stato l’esito. Poi alcuni proseguirono con altre aggressioni e con le schedature degli avversari politici. Cosa che veniva considerata quasi normale, da una parte e dall’altra, in quei tempi. Mi colpì che negli anni successivi, nei cortei, si rivendicasse con gli slogan quella morte. La morte di un ragazzo che affiggeva i manifesti del Fronte della Gioventù, ma non aveva mai fatto male a nessuno».

Nel processo, che si concluse con serie condanne, ci fu anche un sipario comico.
Dai verbali delle dichiarazioni di uno dei responsabili: «Bisogna ricordare che allora avevamo paura di un colpo di Stato. Ricordo che una mattina un mio compagno di classe mi aveva chiamato agitatissimo per dirmi: “Marco, guarda che ci sono i carri armati per le strade”. Scoprimmo poi che era la sfilata del 4 novembre».
Presidente: «Ma a scuola non vi avevano detto che il 4 novembre era la festa nazionale?».
La risposta fu: «All’epoca leggevamo più i testi del marxismo che i testi scolastici».

La Russa racconta che quando Sergio arrivò al Fronte della Gioventù, in quegli anni di scarsa affluenza, lo guardarono con sospetto. Per i capelli, per l’aria moderata, per il carattere introverso, timido. Quando si iscrisse chiese di «non ricevere la posta a casa». Erano anni duri, a destra e a sinistra. Anni di ambiguità, di distinguo pelosi e viscidi, di appelli pubblici firmati per pigrizia o per ignavia. L’Avanti — siamo prima di Craxi, non dopo — scrive un commento in cui dice: «Ramelli era noto all’ufficio politico della questura di Milano per affissione abusiva di manifesti del cosiddetto Fronte della Gioventù, organizzazione giovanile del Msi. La morte di Sergio Ramelli ripropone una serie di gravi problemi, innanzitutto alla polizia e alla magistratura. Infatti, il permanere di episodi di violenza privata e di vendetta ha la sua radice nella mancata eliminazione dei gruppi squadristi che, instaurando un clima di sopraffazione a colpi di rivoltella, innescano una spirale di violenza pericolosissima, prevista e sapientemente calcolata dagli artefici della strategia della tensione più volte denunciata dalle forze della sinistra».

L’Unità, per la penna di Claudio Petruccioli, prende una posizione ben più netta: «Nelle sprangate che lo hanno lasciato morente sul marciapiede di Via Amedeo non vi era né volontà di riscatto né amore per la libertà. In quei colpi vi era solo una violenza cieca e compiaciuta, tutta individuale, che ad altro non mirava se non a riprodurre se stessa in una spirale senza fine: tale da suscitare orrore e repulsione in ogni sincero democratico, in ogni uomo onesto».

La violenza ottusa porterà nei giorni dopo a una sequenza di morti. Ragazzi di sinistra e di destra, ancora. Esistevano piazze, scuole, quartieri, cinema nei quali un ragazzo di destra o sinistra non poteva entrare. C’erano cappotti o occhiali che non si potevano portare. C’erano giornali che non si potevano leggere. È stato il tempo dei nostri muri. E della follia della violenza tra ragazzi.

Uno dei momenti più belli della mia vita fu quando ero sindaco di Roma e, in una manifestazione pubblica, si abbracciarono Giampaolo Mattei — fratello dei due ragazzi di Primavalle figli del segretario di una sezione del Msi bruciati vivi da militanti di Potere Operaio che non hanno fatto carceree Carla Verbano, mamma di Valerio, che ascoltò, legata e imbavagliata col marito, i suoni della morte di suo figlio, un ragazzo dell’area dell’autonomia al quale dei killer fascisti, mai trovati, spararono alla schiena nel salotto di casa.

I morti di quegli anni non devono oggi essere rivendicati, scagliati, usati per protrarre l’odio.

Il conflitto, in una democrazia, è vitale. Anche il più duro. Senza conflitto non c’è libertà. Ma l’odio è una patologia. E quegli anni sono stati un’epidemia di questo male.

Non ci sono state morti giuste e ingiuste. Solo morti di innocenti. Anche in Italia è esistito un muro, invisibile. E i muri conducono, prima o poi, alla violenza. La madre di Ramelli ha raccontato: «Il giorno dopo la morte di Sergio venne un prete che aveva fatto il partigiano. Se ne stava con il suo fazzoletto blu dei Volontari della libertà, ad osservare qua sotto dove c’erano i fiori, i ragazzi, le foto di Sergio e scuoteva la testa. All’obitorio era presente per benedire la bara, e la volle seguire anche in chiesa il giorno del funerale. Quando la polizia glielo vietò si mise a gridare: “Non ho liberato l’Italia per vedere queste porcherie”».

Pasolini, che verrà ucciso nel novembre di quell’anno, a proposito dei ragazzi di destra aveva scritto: «Essi non sono i fatali predestinati rappresentanti del Male: non sono nati per essere fascisti. Nessuno — quando sono diventati adolescenti e sono stati in grado di scegliere, secondo chissà quali ragioni e necessità — ha posto loro razzisticamente il marchio di fascisti. È un’atroce forma di disperazione e di nevrosi che spinge un giovane a una simile scelta; e forse sarebbe bastata una sola piccola diversa esperienza nella sua vita, un solo semplice incontro, perché il suo destino fosse diverso».

Perché avete scelto proprio Ramelli? È la domanda che il giudice rivolge a uno dei responsabili dell’assassinio, nel processo del 1987. La risposta è agghiacciante: «Non esiste una risposta precisa. Ramelli per noi era un ragazzo del Fronte della Gioventù e in quel periodo rappresentava, o meglio era quello contro cui combattevamo, la destra, i neofascisti portatori di interessi politici ed economici di una classe contro la quale avevamo molto da ridire per il suo discorso antipopolare».


Quel ragazzo col Ciao «rappresentava interessi politici ed economici di una classe»?

E i ragazzi di sinistra uccisi erano, a loro volta, simboli del leninismo?

No, quelle violenze erano «porcherie», solo porcherie, che hanno rovinato la vita a un Paese intero. E hanno impedito di vivere a ragazzi che avevano delle idee che forse avrebbero cambiato, o forse no, nel corso di una vita in cui si sarebbero innamorati, forse sposati, forse avrebbero messo al mondo dei figli.

Sergio e gli altri, divisi sanguinosamente in vita, devono oggi essere uniti nella memoria collettiva.

Uniti, almeno sulla collina.

Lontani dagli sciagurati che, in pianura, non erano capaci di capire e vivere la legittimità e la bellezza dell’altro da sé.


peccato che hai scagliato per primo la prima pietra.
 

Alien.

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L'eroe fiumano Gigante fucilato dai comunisti torna a fianco del Vate

I resti del compagno di D'Annunzio nella impresa del '19 al Vittoriale dopo 73 anni

Fausto Biloslavo - Dom, 16/02/2020 - 17:00





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Undici salve di cannone hanno accolto i resti mortali del senatore Riccardo Gigante. Il compagno dell'impresa di Fiume, Gabriele D'Annunzio, lo voleva al suo fianco, al Vittoriale degli italiani.
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A Gardone Riviera, sulle sponde del lago, il poeta guerriero aveva edificato il suo mausoleo attorniato da dieci grandi urne per le spoglie di altrettanti compagni d'avventura, amici per sempre. Solo una era rimasta vuota perché ci sono voluti 73 anni per riportare alla luce i resti del senatore Gigante. Gli sgherri di Tito lo hanno fucilato vicino a Fiume, senza processo, il 4 maggio 1945, a guerra finita. E buttato in una fossa comune.
«L'emozione è stata straordinaria e ha accomunato le 1500 persone presenti in questo grande ricordo. Abbiamo rispettato la volontà di D'Annunzio di avere accanto a sé gli amici dell'impresa fiumana» ha raccontato al Giornale, Giordano Bruno Guerri, presidente della Fondazione del Vittoriale, la «casa» del Vate.

La cerimonia ha avuto il suo apice quando Dino Gigante, discendente del senatore ha depositato i resti assieme a quelli di altri sventurati infoibati da Tito nell'urna rimasta per troppi anni vuota. Istituzioni civili, militari, il vicepresidente del Senato, Maurizio Gasparri, il sindaco di Trieste, Roberto Dipiazza, associazioni d'Arma hanno affollato il Vittoriale per il momento solenne.
In un paese che non dimentica il passato avrebbero dovuto esserci il presidente del Consiglio o il capo dello Stato, ma Gigante è una vittima di serie B, dei crimini comunisti e D'Annunzio sembra quasi che sia troppo ingombrante e discusso per onorarlo come meriterebbero la sua storia.
Gigante, classe 1881, fu giovane artista, storico, giornalista e fondatore di un circolo irredentista ai tempi dell'impero austro ungarico. Durante il primo conflitto mondiale faceva parte dei cento coraggiosi fiumani che combatterono per l'Italia rischiando il patibolo in caso di cattura. Eroe di guerra guadagnò sul campo la croce al valore militare e nel 1919 fu protagonista dell'impresa di Fiume al fianco di D'Annunzio.
«Ti aspettavamo qui di giorno in giorno» scriveva il Vate in un preveggente telegramma all'amico. E ci sono voluti 75 anni. Gigante divenne sindaco di Fiume e senatore durante il periodo fascista. Nel 1943 aderì alla Repubblica sociale, ma fu destituito dopo sole tre settimane perché aveva preso una ferma posizione contro la politica di assimilazione forzata nei confronti degli slavi. Sua moglie era ebrea e da uomo di altri tempi rimase a Fiume all'arrivo dei partigiani vittoriosi di Tito sostenendo «di non aver mai compiuto alcun crimine». L'Ozna, la polizia segreta, lo prelevò come «nemico del popolo». A Castua, pochi chilometri nell'entroterra venne fucilato, senza processo, assieme ad altri sette italiani. Poi i carnefici finirono i moribondi a colpi di baionetta gettando i cadaveri in una fossa comune.
Solo nel 2018 è stato possibile recuperare i resti del senatore disperso grazie alla tenace ricerca di Amleto Ballarini della Società di Studi fiumani, Onor caduti e le autorità croate. Gasparri, senatore di Forza Italia ha spiegato di avere chiesto «l'intervento del Ris dei carabinieri di Parma per l'identificazione delle spoglie grazie all'esame del Dna».
La tumulazione al Vittoriale è avvenuta ieri, spiega Guerri, anche «per ricordare a tragedia delle foibe e dell'esodo dei profughi giuliani, fiumani e dalmati che furono costretti a lasciare le loro case e la loro storia, per fuggire al terrore di un vincitore spietato». Una commossa Daniela Gigante, nipote dell'eroe fiumano ha dichiarato: «Mai avrei sperato di arrivare a questo giorno, alla restituzione dei resti di mio nonno. Non c'è nulla di più bello e credo possa essere un esempio per tutti».
 

Alien.

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Home / NEWS / “Tornate a casa vostra”. Quando i comunisti sputavano sui profughi

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“Tornate a casa vostra”. Quando i comunisti sputavano sui profughi italiani di Istria

Il Pci non conobbe la parola “accoglienza”. Per gli italiani di Pola e Fiume solo odio. L’Unità scriveva: “Non meritano la nostra solidarietà né hanno diritto a rubarci il pane”
“Poi una mattina, mentre attraversavamo piazza Venezia per andare a mangiare alla mensa dei poveri, ci trovammo circondati da qualche centinaio di persone che manifestavano.
Da un lato della strada un gruppo gridava: ‘Fuori i fascisti da Trieste’, ‘Viva il comunismo e la libertà’ sventolando bandiere rosse e innalzando striscioni che osannavano Stalin, Tito e Togliatti“. Stefano Zecchi, nel suo romanzo sugli esuli istriani (Quando ci batteva forte il cuore), racconta così il benvenuto del Pci agli italiani che abbandonarono la Jugoslavia per trovare ostilità in Italia. Quella che fino a pochi attimi prima era la loro Patria.
Quando alla fine della seconda guerra mondiale, il 10 febbraio 1947, l’Italia firmò il trattato di pace che consegnava le terre dell’Istria e della Dalmazia alla Jugoslavia di Tito, la sinistranon conobbe la parola ‘accoglienza’. Tutt’altro. Si scaglio con rabbia e ferocia contro quei “clandestini” che avevano osato lasciare il paradiso comunista.
Trecentocinquantamila profughi istriani e dalmati. Trecentocinquantamila italiani che la sinistra ha trattato come invasori, come traditori. Ad attenderli nei porti di Bari e Venezia c’erano sì i comunisti, ma per dedicargli insulti, fischi e sputi. A Bologna invece per evitare che il treno con gli esuli si fermasse, i ferrovieri minacciarono uno sciopero. E poi roversciarono il latte raccolto per le donne e i bambini affamati.
Ecco. Bisogna dire che Giorgio Napolitano ha ragione: il Pd è l’erede del Pci. Ma oggi la sinistra italiana, che di quella storia è figlia legittima, dimentica gli orrori del febbraio del ’47. Ora si cosparge il capo di cenere e chiede a gran voce che l’Italia apra le porte a tutti i migranti del mondo.
Predica l’acccoglienza verso lo straniero che considera un fratello, quando per anni ha considerato stranieri i suoi fratelli. Ma gli unici profughi che la sinistra italiana ha rigettato con violenza erano italiani. Istriani e Dalmati.
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“Sono comunisti. Gridano ‘fascisti’ a quella povera gente che scende dalla motonave (…). Urlano di ritornare da dove sono venuti”, ricorda Zecchi. Non sono le parole di Matteo Salvini. “Tornate da dove siete venuti” era lo slogan del Partito Comunista di Napolitano, Violante, D’Alema, Berlinguer e Veltroni.
L’Unità, nell’edizione del 30 novembre 1946, scriveva: “Ancora si parla di ‘profughi’: altre le persone, altri i termini del dramma. Non riusciremo mai a considerare aventi diritto ad asilo coloro che si sono riversati nelle nostre grandi città. Non sotto la spinta del nemico incalzante, ma impauriti dall’alito di libertà che precedeva o coincideva con l’avanzata degli eserciti liberatori. I gerarchi, i briganti neri, i profittatori che hanno trovato rifugio nelle città e vi sperperano le ricchezze rapinate e forniscono reclute alla delinquenza comune, non meritano davvero la nostra solidarietà né hanno diritto a rubarci pane e spazio che sono già così scarsi”.
Oggi invocano l’asilo per tutti. Si commuovono alla foto del bambino riverso sulla spiaggia. Lo pubblicano in prima pagina. Dedicano attenzione sempre e solo a chi viene da lontano. Agli italiani, invece, a coloro che lasciatono Pola, Fiume e le loro case per rimanere italiani, la sinistra riservò solo odio. Lo stesso che gli permise di nascondere gli orrori delle Foibe.
Non dovevamo dimenticare che eravamo clandestini, anche se eravamo italiani in Italia“.

 

aragon56

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continua con le tue lunghe menate fuori tema ma non rispondi alla mia semplice domanda.... che vuoi che ti dica
te le suoni e te le canti da solo...contento te.....
 

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