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La Fornero non è uguale per tutti
Le ferie d'oro della Camera che anticipano la pensione
Con lo speciale regime di Montecitorio i dipendenti accumulano giorni di vacanza senza limite. Chi ne ha 4-500 può così smettere di lavorare anche 2-3 anni prima. Con stipendio



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«È meglio lavorare poco e fare tante vacanze, piuttosto che lavorare molto e fare poche vacanze». Massimo Catalano è scomparso da due mesi, ma chi cerca conferme della validità della sua filosofia non faticherà a trovarle nella disciplina che regola le ferie dei 1.551 dipendenti di Montecitorio. Un ordinamento che non ha eguali in Italia e probabilmente nel resto dell’Occidente, fatta eccezione per il solito Empireo dell’amministrazione pubblica (Senato, Banca d’Italia e Quirinale, per capirsi). E che consente ai fortunati abitanti di Boldrinolandia di andare in pensione con due o tre anni di anticipo rispetto ai comuni mortali. Anzi, per l’esattezza permette loro di continuare a intascare uno stipendio pieno (e per di più stipendio di fine carriera, che grazie agli scatti automatici nel caso di un consigliere della Camera può arrivare a un imponibile di 300mila euro) pur essendo ormai, a tutti gli effetti, degli ex lavoratori.

È un meccanismo studiato alla perfezione e oliatissimo. Si basa su tre semplici regole. La prima è la più ovvia: un numero di giorni di ferie superiore a quello di ogni altra categoria. I metalmeccanici hanno diritto a 24 giorni di ferie l’anno, i poliziotti a 28. Ma i dipendenti della Camera, il cui lavoro evidentemente è ritenuto più sfibrante rispetto a muovere le presse di Mirafiori o correre appresso ai ladri, hanno un sistema particolare, che a inizio carriera parte da un numero di ferie già elevato, che a seconda della qualifica va da 27 a 33 giorni, e subito decolla e aumenta di pari passo con l’anzianità lavorativa. Per arrivare a un massimo di 38 giorni nel caso dei documentaristi di Montecitorio, a 39 per i loro colleghi interpreti e a 41 per i consiglieri. Pochi meno, ma sempre senza paragoni rispetto al resto del mondo, i giorni di ferie concessi agli altri lavoratori della Camera. Persino i ministeriali italiani, che non sono proprio fatti con lo stampo di Aleksej Stachanov, con i loro 32 giorni di ferie annuali (28 nel caso in cui la settimana lavorativa sia di 5 giorni) li osservano invidiosi dal basso in alto.

La seconda regolina è quella che consente l’accantonamento delle ferie a fine carriera. In parole povere, il dipendente che entro il 30 settembre non ha smaltito tutte le ferie dell’anno precedente se le vede messe da parte: gli saranno restituite prima di andare in pensione. Quando, cioè, diventerà un lavoratore solo di nome: in realtà avrà smesso di lavorare e sarà pagato, quasi sempre con il massimo stipendio che gli può consentire la carriera, per starsene a casa o in vacanza in attesa della pensione vera e propria. Grazie a questo meccanismo, ad esempio, ogni assistente della Camera riesce a guadagnarsi, in media, dieci giorni l’anno di “pensione anticipata” (giorni lavorativi, il che vuol dire che quelli reali sono di più).

Con il passare degli anni, il cumulo diventa impressionante: oggi ci sono 14 dipendenti di Montecitorio, ovviamente tra i più anziani, che hanno accantonati oltre 500 giorni di ferie a testa. Significa che costoro smetteranno di lavorare almeno due anni prima del previsto. Altri 35 dipendenti hanno messo da parte un numero di giorni di ferie tra i 401 e i 500, mentre 37 sono quelli che al momento ne contano tra i 301 e i 400. Quando il numero di giorni accantonati sarà uguale ai giorni di lavoro che mancano al raggiungimento della pensione, costoro saluteranno i colleghi e se ne andranno. Per rimpiazzarli la Camera dovrà assumere nuovi dipendenti, pur pagando ancora lo stipendio a quelli vecchi. Più stipendi per tutti, dunque, giovani e anziani. Il che contribuisce a spiegare come faccia nel 2013 Montecitorio a spendere 231.140.000 euro per gli emolumenti al personale (oneri accessori esclusi), con una media-record di 149.026 euro per dipendente, telefonisti e falegnami compresi.

Terzo e ultimo regalo che la Camera fa ai propri dipendenti sotto la voce «Ferie facili» è il cosiddetto «recupero a giorni interi delle eccedenze orarie», valido per tutti tranne che per i consiglieri. Significa che chi lavora più del previsto, perché è entrato sul posto di lavoro prima del normale orario e/o ha lasciato l’ufficio più tardi, anziché scontare questi straordinari da un’altra giornata lavorativa li accumula sin quando non equivalgono a un’intera giornata di lavoro. A quel punto, di fatto, il dipendente si è guadagnato un giorno di ferie. I documentaristi, ad esempio, in questo modo riescono a recuperare in media quattro giorni di “vacanza extra” ogni anno, gli assistenti cinque.

Questo consente ai dipendenti di Montecitorio di prendere ogni anno meno ferie di quelle (tante, come si è visto) che spettano per contratto, e quindi di accumulare con facilità giorni di ferie non utilizzati in vista della fine della carriera, e infine di smettere di lavorare assai prima dell’entrata ufficiale in pensione: i tre meccanismi si integrano come in un orologio perfetto.

Al di fuori del Palazzo tutto questo è noto solo a pochi, il che consente ai dipendenti di Laura Boldrini di continuare a godere di simili privilegi senza eccessivi imbarazzi. Tutto insomma continuerebbe a filare liscio, se non fosse che il segretario generale della Camera, Ugo Zampetti, per guadagnarsi la riconferma da parte della presidente (occupa quell’incarico, che gli frutta un reddito imponibile di 405.000 euro rivalutati del 2,5% ogni due anni, solo dal 1999), deve produrre qualche taglio alle spese. Un po’ di foglietti con su scritto “spending review”, che l’onorevole Boldrini possa sventolare dinanzi alle telecamere per far credere che lei fa le cose sul serio. Così Zampetti si barcamena tra la Boldrini, costretta dalle sue stesse promesse a dare una spuntatina ai costi, e gli undici sindacati interni di Montecitorio, che di rivedere lo status dei dipendenti non vogliono nemmeno sentire parlare.

Tre interventi per limitare il tripudio di ferie sono allo studio del segretario generale in questi giorni, uno per ogni rotella dell’ingranaggio. Primo: ridurre il numero di giorni di ferie concessi ai dipendenti di Montecitorio, equiparandoli a quelli dei normali ministeriali: 32 l’anno. Secondo: fissare un limite – ad esempio 70 - ai giorni di ferie che si possono accantonare in vista della fine della carriera, pur facendo salvi quelli accumulati sinora, anche se superiori a tale tetto. Terzo: vietare il recupero sotto forma di giorni interi delle ore lavorate in eccesso.

Per i primi due interventi, però, è necessario sedersi al tavolo con i sindacati, visto che si tratta di cambiare il contratto di lavoro. Le sigle che rappresentano i dipendenti ovviamente sono contrarie, il che significa che ci sono tutte le premesse perché ogni cosa resti com’è. Per il terzo intervento la firma dei sindacati non è necessaria, basta una semplice circolare. Ma l’amministrazione di Montecitorio intende comunque sentire il parere delle organizzazioni: nel Bengodi equo e solidale governato da Laura Boldrini i diritti fondamentali dei lavoratori sono trattati con il massimo rispetto.

di Fausto Carioti
 
IL PCI NON SI TOCCA

La confessione
Sallusti: "Il Corriere? Aveva due direttori, Mieli e Borrelli"
Il direttore del Giornale chiarisce gli anni di tangentopoli e il 1994 vissuto in via Solferino: "I magistrati là erano di casa, ma non toccavano mai il Pci"



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Alessandro Sallusti si confessa. In un'intervista al Foglio di Giuliano Ferrara, il direttore de Il Giornale racconta i suoi anni al Corriere della Sera, eil suo rapporto con Paolo Mieli col quale ha discusso con toni accesi durante l'ultima puntata di Ballarò. La polemica è scoppiata dopo che Sallusti ha accusato Mieli di aver sempre strizzato l'occhio alle toghe quando negli anni Novanta veniva abbattuta con tangentopoli la prima Repubblica e veniva tirato giù, nel 1994, il primo governo Berlusconi.

Al Corriere le toghe erano di casa - Ora Sallusti chiarisce quegli anni in via Solferino e racconta anche di Mieli: "Quando pubblicammo l'avviso di garanzia che poi avrebbe fatto cadere il primo governo di Silvio Berlusconi, ero felicissimo. Era uno scoop pazzesco. E lo rifarei. Ma si tratta di capire perché certe notizie te le passano. Sin dai tempi di Mani pulite il Corriere aveva due direttori, Mieli e Francesco Saverio Borrelli, il procuratore capo di Milano".

I magistrati ci passavano tutto - Sallusti è un fiume in piena e aggiunge: "I magistrati ci passavano le notizie, con una tempistica che serviva a favorire le loro manovre. Mi ricordo bene la notte in cui pubblicammo l'avviso di garanzia a Berlusconi. Fu una giornata bestiale, Mieli a un certo punto, nel pomeriggio, sparì. Poi piombò all'improvviso nella mia stanza, fece chiamare Goffredo Buccini e Gianluca Di Feo, che firmavano il pezzo, e ci disse, pur con una certa dose di insicurezza, di scrivere tutto, che lo avremmo pubblicato. Parlava con un tono grave, teso. Quella notte, poi, ci portò in pizzeria, ci disse che aveva già scritto la lettera di dimissioni, se quello che avevamo non era vero sarebbero stati guai seri. Diceva di aver parlato con Agnelli e poi anche con il presidente Scalfaro. Ma poi ho ricostruito che non era così, non li aveva nemmeno cercati, secondo me lui pendeva direttamente dalla procura di Milano". Insomma per Sallusti c'è un filo rosso che unisce il Corriere della Sera e la procura di Milano. La storia si ripete. E questa volta non cade solo un governo. Stavolta si elimina il leader del maggior partito italiano di centrodestra. (I.S)
 

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