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Ingresso vietato a cani e Italiani- Voi ve lo ricordate. ?

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[h=1]“Ingresso vietato a cani e Italiani”[/h]
[h=2]A Marcinelle. Immigrati e lavoratori italiani in visita in Belgio nei luoghi dell’emigrazione italiana. I connazionali che vivono qui fanno memoria di quando la manodopera a basso costo eravamo noi[/h] Paolo Riva“Ora mi sento integrata, ma appena arrivati ne abbiamo passate. Nei locali, c’erano i cartelli con su scritto Vietato l’ingresso ai cani e agli italiani”. Rosetta ricorda con trasporto, scavando nella sua memoria di emigrante. Gaetano, marito ed ex minatore, le sta seduto accanto e contribuisce al racconto. A un certo punto, l’energica signora si rivolge direttamente alla persone che le stanno di fronte, quasi ammonendole: “Mi raccomando, non fate oggi queste cose che noi abbiamo subito allora”. Un momento della visita al museo del Bois du Cazier - Foto: Paolo Riva

Ad ascoltarla, all’ingresso del Bois du Cazier di Marcinelle, una quindicina di persone. Seguono le parole della coppia con grande attenzione, in religioso silenzio. Alcuni perché non conoscevano così bene la sorte che è toccata a tanti nostri connazionali. Altri perché l’esperienza di Rosetta e Gaetano l’hanno vissuta in prima persona. Il gruppo di visitatori è infatti un mix composito di storie e provenienze che, accanto a una nutrita componente bergamasca, conta anche membri nati in Marocco, Camerun, Sierra Leone e Bolivia. E così, in un luogo tanto importante per la memoria italiana ed europea da essere diventato sito Unesco, gli immigrati di oggi si ritrovano di fronte agli emigrati di ieri. “Ora mi sento integrata, ma appena arrivati ne abbiamo passate. Nei locali, c’erano i cartelli con su scritto Vietato l’ingresso ai cani e agli italiani. Mi raccomando, non fate oggi queste cose che noi abbiamo subito allora”.

“L’idea è cercare le costanti della mobilità umana, scoprire le connessioni tra il passato e il presente, senza dimenticare le specificità dei diversi momenti storici”, spiega con entusiasmo e competenza Giancarlo Domenghini, da anni attivo nel campo dell’immigrazione e oggi educatore della cooperativa RUAH e collaboratore della Diocesi di Bergamo. È lui uno degli artefici di questo incontro, inserito nel programma del viaggio formativo Ritorno al futuro, promosso dall’ufficio Pastorale Migranti della Diocesi di Bergamo in collaborazione con la missione cattolica italiana a Bruxelles, la cooperativa impresa sociale RUAH e altre realtà del territorio orobico. Foto di gruppo di fronte al monumento ai caduti di Marcinelle - Foto: Paolo Riva

“Proposte come questa - continua Giancarlo - le facciamo da ormai 15 anni e, col passare del tempo, si sono aggregati anche cittadini stranieri residenti sul nostro territorio che si considerano soggetti attivi e non destinatari passivi di progetti e servizi”. Il viaggio, che ha toccato anche le istituzioni UE e i quartieri più multiculturali di Bruxelles, è parte di un percorso di formazione più ampio: “è un’esperienza - conclude - che completa benissimo la parte teorica, perché punta molto sulle emozioni”.

E di emozioni al Bois du Cazier se ne provano parecchie e intense. In questa ex miniera di carbone, diventata il simbolo delle sofferenze degli italiani che nel secondo dopoguerra hanno scelto di lasciare la povertà del nostro paese per cercare una vita più degna altrove, l’8 agosto 1956 un incidente ha causato la morte di 262 minatori. Le vittime erano di nove nazionalità diverse, tra le quali quella italiana era di gran lunga la più rappresentata con 136 uomini mai più tornati in superficie. Per fare memoria di quel gravissimo episodio, causato da un errore umano, ma soprattutto dalle pessime condizioni di lavoro e dalle carenze delle norme di sicurezza, oggi vi è un museo e, al suo interno, un monumento di marmo bianco che ricorda la tragedia. Il gruppo di Ritorno al futuro, vi depone davanti una corona di fiori e poi si ferma per un momento di preghiera. Prima quella cattolica e poi quella musulmana.
“L’idea è cercare le costanti della mobilità umana, scoprire le connessioni tra il passato e il presente, senza dimenticare le specificità dei diversi momenti storici”

Quindi la visita prosegue lungo un percorso che illustra il lavoro in miniera, ma anche la vita degli immigrati. La prima tappa è una ricostruzione delle baracche di lamiera nelle quali vivevano i primi italiani arrivati subito dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale. Lo stupore è generale tra i nuovi italiani. Per Mhmaed, che è arrivato nel nostro paese dal Marocco dieci anni fa, “è tutto nuovo”. Lo stesso per il suo connazionale Hussein. Sulla medesima lunghezza d’onda anche il camerunense Blaise, ormai da tempo residente in provincia di Bergamo. Dopo aver ascoltato attentamente la guida, confessa: “Non sapevo niente di questa parte di storia”. Non è questione di italiani o stranieri, secondo Giancarlo. “Il nostro passato migratorio l’abbiamo rimosso. I nostri giovani non sanno più nulla delle valigie di cartone con cui si partiva, anche dalle nostre valli. Del resto, io stesso, molto di quel che so ora, l’ho scoperto solo negli ultimi anni”. Un momento della visita - Foto: Paolo Riva

La sorpresa, però, lascia presto spazio a reazioni, riflessioni e paragoni. “Sto trovando molte analogie con la mia esperienza e, soprattutto con quella di mio fratello”, dice Mhamed. “È arrivato nel 1991 e, all’inizio, viveva in un buco di appartamento con una ventina di altri immigrati: non avevano alternative. Io ho fatto meno fatica. Anche se trovare casa per uno straniero è difficile ancora oggi. Ho un contratto e un buon stipendio, ma in molti si sono rifiutati di affittare a un marocchino come me”.


A colpire Hussein è, invece, la distanza tra le promesse che venivano fatte agli emigrati prima di partire e la realtà che si ritrovavano ad affrontare. Dal 1946 in poi, molti degli italiani reclutati nei piccoli centri della provincia sono arrivati in Belgio senza sapere nulla delle fatiche del lavoro in miniera, convinti di trovare condizioni di lavoro e alloggio dignitose, che invece Bruxelles non è stata in grado di garantire per molti anni. “Li hanno ingannati, come è capitato a me. Dieci anni fa sono arrivato a Bergamo con un visto e un regolare contratto. Ma non c’era nessun lavoro ad aspettarmi. Ero solo, senza nulla. Ci ho messo un po’, ma per fortuna dopo sei mesi ho trovato un lavoro vero e ho cominciato a rialzarmi”, dice con un certo orgoglio.
“Sto trovando molte analogie con la mia esperienza e, soprattutto con quella di mio fratello. È arrivato nel 1991 e, all’inizio, viveva in un buco di appartamento con una ventina di altri immigrati: non avevano alternative. Io ho fatto meno fatica. Anche se trovare casa per uno straniero è difficile ancora oggi”.

Il dialogo potrebbe continuare per ore, in un continuo gioco di specchi tra flussi migratori diversi, avvenuti in condizioni economiche, legislative e sociali diverse, ma simili nei sentimenti che hanno fatto nascere nei loro protagonisti. La partenza del volo che riporterà il gruppo in Italia, però, incombe e, così, tocca ancora a Giancarlo tirare le conclusioni: “Venire qui non è un’operazione nostalgica, è il tenere viva una memoria che parla al presente. Per me, pur nelle differenze, Marcinelle e Lampedusa si trovano sulla stessa linea di senso. Riscoprire l’una serve a capire l’altra”. [h=2]Dall’Italia alle miniere belghe un’epopea che ha coinvolto più di 170 mila lavoratori[/h]
Tra il 1946 e il 1955, oltre 170mila italiani hanno lasciato il nostro paese alla volta del Belgio e delle sue miniere. A spingerli è stato il cosiddetto patto uomo-carbone e cioè un protocollo firmato dal primo ministro De Gasperi e dal suo omologo belga Van Acker che prevedeva l’invio di manodopera in cambio dell’acquisto di minerale a prezzi vantaggiosi.

In un’Italia in ginocchio dopo la Guerra, con l’economia da far ripartire e masse di giovani senza lavoro e prospettive, in molti scelsero di partire. Soprattutto dalla Sicilia, dall’Abruzzo e dal Veneto. Molti non resistettero e furono oltre 50mila i rimpatri nei primi sei anni dell’accordo. Quelli che rimasero, invece, crearono delle grandi comunità italiane nei centri dei principali bacini carboniferi, attorno a Charleroi, a Mons, a Liegi e nel Limburgo fiammingo.
Tra il 1946 e il 1955, oltre 170mila italiani hanno lasciato il nostro paese alla volta del Belgio e delle sue miniere.

La realtà che si ritrovarono ad affrontare era però ben diversa dalle allettanti condizioni di lavoro descritte nei manifesti rosa con i quali erano stati reclutati i lavoratori lungo tutta la penisola. Il Belgio, anch’esso uscito provato dal conflitto, non era pronto per accogliere un numero così elevato di lavoratori e gli italiani si ritrovarono spesso a vivere in pessime condizioni, a volte in vere e proprie baracche in precedenza riservate ai prigionieri di guerra. Vi era poi una certa ostilità da parte dei belgi e il termine macaronì, con cui venivano apostrofati i nuovi arrivati, ne è la testimonianza.

C’era poi il drammatico capitolo delle le condizioni di lavoro che, soprattutto in Vallonia, erano dure e poco sicure all’interno di miniere vecchie di secoli e dotate di sistemi di sicurezza arretrati. L’incidente di Marcinelle rese tutto questo evidente, ma prima di quel tragico 8 agosto 1956, a partire dalla firma del patto uomo-carbone, avevano già perso la vita altri 539 minatori italiani.

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