Il dialetto, ogni dialetto, è una lingua.
Legata agli usi, ai costumi, alla storia, a tutte quelle persone che l'hanno resa viva.
A Napoli, a differenza di altri luoghi, il retroterra di questa meravigliosa lingua è ancora vivo. Un napoletano di 200 anni fa, se dovesse rinascere, riconoscerebbe subito la sua città.
Io, invece, non riconosco più la mia città. Mi sento solo, in mezzo a sconosciuti che parlano strani idiomi. Dove sono le facce sorridenti, le nonnine sferruzzanti, gli stracciaioli, i venditori di pesce, gli arrotini?
Dov'è quella parlata nervosa, secca che risuonava nelle vie?
Mi hanno rapito gli alieni e portato in un mondo che non è il mio!
E' vero che io non ha mai parlato in dialetto, o meglio, ho smesso, quando, da bambino, mi ero accorto che era utilizzato per deridere persone provenienti da altri luoghi e con parlata diversa dalla nostra. I primi meridionali, che i miei amici chiamavano con disprezzo "I terroni".
La rabbia, il disgusto che provai fu così forte che smisi di usare il dialetto e da allora parlai solo in italiano e sviluppai un ODIO feroce verso chiunque, per qualsiasi motivo, additava negativamente il prossimo solo perché nato in un posto anziché in un altro.
Napoli, poi, è sempre stata presente nella mia vita: Totò, Tina Pica, Campanelle, fino ad arrivare alla Smorfia passando per gli immensi De Filippo.
Persone che hanno allietato il mio tempo.
Se solo riuscissimo ad essere seri e a capire (finché si è vivi) che:
"Sti ppagliacciate 'e ffanno sulo 'vive
nuje simmo serie... appartenimmo à morte!"
Viva le persone, ovunque siano nate
Baciccia