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Frate Indovino

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SANTA MATILDE DI GERMANIA regina
Santa Matilde, discendente del duca Viduchindo, che aveva guidato i sassoni nella loro lunga battaglia contro Carlo Magno, nacque verso l’895 presso Engern in Sassonia da Teodorico, un conte della Westfalia, e da Rainilde, originaria della real casa danese. I genitori erano cristiani e affidarono la fanciulla all’abadessa di Erfurt, affinché la educasse all’amore di Dio e al perseguimento delle virtù cristiane. Matilde rispettosamente obbedì ai genitori e alle cure dell’educatrice. Tornò in famiglia solo quando capì che quella era la volontà di Dio. Andò in sposa al principe Arrigo, figlio di Enrico duca di Sassonia, che dopo la morte di Corrado, re di Germania, divenne imperatore. Attraevano di lei, a chi le era vicino, la modestia, l’umiltà, l’innocenza e le virtù dell’anima più che la sua regalità. Matilde, benché sovrana, spesso faceva visita agli ammalati e ai poveri. Non potendo impegnarsi nelle pratiche di pietà come avrebbe desiderato, nel cuore della notte, mentre nella reggia scendeva il silenzio, si recava in chiesa e trascorreva del tempo in unione con Dio nella preghiera e nella contemplazione. Il marito Arrigo, cattolico anche lui, venne a mancare improvvisamente. Grande fu il dolore di Matilde, rimasta con tre figli: Ottone, Enrico e Brunone. Ottone era stato designato dal padre come suo successore, ma siccome l’impero di Germania era elettivo, Enrico insorse contro il potere del fratello. In effetti, Matilde appoggiò Enrico, così i due figli finirono per farsi la guerra. Ma, accadde che i due si alleassero contro la madre: le tolsero ogni potere, tutte le sue ricchezze e la costrinsero a ritirarsi in un monastero. Dispiaceri, umiliazioni e sofferenze le furono compagne dopo questi avvenimenti, che sopportò con spirito di penitenza. La virtù della regina madre diede i suoi frutti: i suoi figli si riconciliarono tra di loro e con lei; Ottone la richiamò a partecipare agli affari di stato; Enrico continuò a essere per lei fonte di dispiacere. Alla fine della sua vita si ritirò in uno dei monasteri da lei fondati, vivendo nella preghiera e nell’attività delle opere di carità. Si ammalò gravemente e, dopo aver vissuto una vita in santità, spirò. Era il 14 marzo 968.FB_IMG_1710401245651.jpg
 

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SANTA LUISA DE’ MARILLAC vedova e religiosa
Luisa, di famiglia benestante, nacque a Parigi nel 1591. Ancora giovane, sposò Antonio Le Gras, segretario della regina di Francia, Maria de’ Medici. Rimase vedova molto presto, ma l’incontro con san Vincenzo de Paoli la risollevò e la aiutò a comprendere quale ampia possibilità di operare da parte delle donne ci fosse nel campo della carità. Con devozione ed entusiasmo collaborò con san Vincenzo nella organizzazione della “Compagnia della carità”, gruppi di intervento contro la miseria. Luisa accolse nella sua casa tutte le donne desiderose di prestare assistenza e le istruì. Nacquero le “Figlie della carità”, vestite con una cuffietta bianca in testa, serve dei poveri, monache senza convento e senza un abito distintivo di un ordine. Fu una vera novità rivoluzionaria, un propagarsi grande di queste donne eroiche, un grande successo che stupì i malpensanti della società dell’epoca non certo contraddistinta dai buoni e solidi principi.FB_IMG_1710497300149.jpg
 

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SAN PATRIZIO vescovo
Patrizio nacque in Britannia, nel 390. Fu catturato dai pirati e venduto come schiavo. Visse per sei anni in Irlanda, facendo il guardiano di animali. Sviluppò un grande amore per gli abitanti dell’isola, tanto che quando riuscì a sfuggire alla schiavitù, desiderò tornare in Irlanda con progetti di evangelizzazione. Quando fu ordinato sacerdote, si recò sull’isola presso il vescovo Palladio, di cui fu poi successore. Dal monte Croagh Patrick, (Patrizio) liberò l’isola dai serpenti grazie al suono di una campana e sconfisse i druidi celtici. Secondo una tradizione diffusa nel 1190, Gesù stesso gli mostrò un pozzo senza fondo in cui Patrizio discese, vide il Purgatorio, l’Inferno e giunse al Paradiso. Per spiegare il Mistero della Santissima Trinità al popolo, egli usò il trifoglio, per semplificare l’unità e la diversità delle tre Persone. Fondò diversi monasteri. Di lui si dice che le sue dita facevano luce come fiaccole, che le gocce d’acqua cadute dalle sue mani si trasformavano in fuoco e che cambiava la neve in latte e burro. Dio gli concesse il privilegio di liberare le anime dai tormenti dell’Inferno. Patrizio chiese e ottenne di essere il supremo giudice nel giudizio finale degli Irlandesi. Una leggenda narra che quando egli morì, nel 461, il sole non tramontò mai per dodici giorni.FB_IMG_1710661967822.jpg
 

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SAN SALVATORE DA HORTA francescano
Salvatore Grionesos nacque in Catalogna, nel 1520. I genitori dirigevano un piccolo ospedale locale e da loro imparò la pratica della carità. Rimase presto orfano e, per mantenere sé stesso e la sorella, lavorò a Barcellona come calzolaio. Ma, quando la sorella si sposò, egli poté seguire la sua vocazione religiosa ed entrò nel convento dei francescani della città. Salvatore, che si distinse per umiltà e amore alla povertà, fu mandato nel convento di Tortosa, dove gli venivano dati gli incarichi più pesanti. Egli aveva il dono di operare miracoli e la fama che guadagnava non era gradita ai confratelli da cui riceveva rimproveri. Fu anche denunciato all’Inquisizione, ma superò l’esame per la sua umiltà e carità. Veniva continuamente trasferito di convento in convento fino a Horta, dove compì numerosi miracoli. Infine, giunse in Sardegna e qui fu accolto benevolmente dai frati e vi rimase fino alla morte.FB_IMG_1710757442527.jpg
 

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SAN GIUSEPPE, SPOSO DI MARIA VERGINE
Giuseppe è il capo della Sacra Famiglia e, sebbene, persona molto silenziosa, la sua autorità veniva rispettata dai membri di questa famiglia: Gesù e Maria. Questa autorità trovava fondamento nella saggezza, nella virtù, nella consapevolezza di Giuseppe dei bisogni concreti delle persone che gli erano state affidate. E provvide a questi bisogni lavorando con le nude mani di operaio, nella sua bottega di falegname. Giuseppe amava profondamente Maria e di fronte al misterioso bambino che ella aspettava, voleva porre fine alla faccenda con discrezione. Ma, essendo “uomo giusto”, cioè disponibile a compiere fedelmente la volontà di Dio, prese Maria con sé, e obbediente consegnò la propria vita, perché si compisse un progetto tanto misterioso, quanto grande. Egli iniziò, così, una vita nuova in cui scoprì il senso profondo di essere sposo fedele di Maria e padre responsabile di quel bimbo. Gesù fu affidato all’amore di Giuseppe: egli gli diede il nome, conferendogli l’identità sociale, e attraverso di lui, Dio consegnò quel bimbo, l’“Emmanuele”, il “Dio con noi” alla storia. Giuseppe era al fianco di Maria: una coppia affiatata, intenta nella costruzione di una famiglia che aveva al suo centro la ricerca della volontà di Dio e l’obbedienza alla sua legge. Come capofamiglia, egli aiutava i suoi cari nel realizzare la propria vocazione. Il semplice falegname di Nazareth, dopo aver preso con sé Maria e il bambino, li custodì nei momenti sereni e nelle difficoltà: di fronte alla dolcezza della madre e alla debolezza del figlio, egli si pose con la sua ferma presenza, senza mai rinnegare le scelte fatte. È divenuto, così, simbolo visibile di Dio, il Padre buono che ha cura di tutti. San Giuseppe, Patrono della Chiesa Universale, dal cielo, ne è oggi guida e sostegno.FB_IMG_1710834449570.jpg
 

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SANTA LEA DI ROMA vedova
Dalla lettera di san Girolamo sulla vita della santa, leggiamo alcune considerazioni di apprezzamento e affetto per Lea già morta: “Dal coro degli Angeli ella è stata scortata nel seno di Abramo e, come Lazzaro, già povero, vede ora il ricco console, già vestito di porpora, e che adesso, non adorno della palma, ma avvolto nell'oscurità, domanda a Lea che gli faccia cadere una goccia dal suo dito mignolo”. Lea, “la cui vita era considerata né più né meno che un fenomeno di pazzia, ecco che è del séguito di Cristo”, nella gloria, per essere stata al suo séguito nella totale rinuncia al mondo. Ella si era consacrata “tutta al Signore, diventando nel monastero madre superiora delle vergini, mutando le vesti delicate di un tempo nel ruvido sacco che logorò le sue membra, passando inoltre in preghiera intere notti, maestra di perfezione alle altre più con l'esempio che con le parole. Fu di una umiltà così profonda e così sincera che, dopo essere stata una grande dama, con molta servitù ai suoi ordini, si considerò poi come una serva. Spregevole la sua veste, grossolano il cibo, trascurava l'acconciatura del suo corpo; mentre poi adempiva a ogni dovere, rifuggiva dal fare anche la minima ostentazione delle opere buone per non riceverne la ricompensa in questa vita”. Questa scelta scomoda, che le fece preferire “il segreto ambito ristretto di una cella” agli agi della lussuosa dimora, che avrebbe potuto godere come futura “prima donna” di Roma, ha collocato questa matrona romana sul piedistallo di una gloria che non teme l'usura del tempo, la santità.
Dalla lettera di san Girolamo sulla vita della santa, leggiamo alcune considerazioni di apprezzamento e affetto per Lea già morta: “Dal coro degli Angeli ella è stata scortata nel seno di Abramo e, come Lazzaro, già povero, vede ora il ricco console, già vestito di porpora, e che adesso, non adorno della palma, ma avvolto nell'oscurità, domanda a Lea che gli faccia cadere una goccia dal suo dito mignolo”. Lea, “la cui vita era considerata né più né meno che un fenomeno di pazzia, ecco che è del séguito di Cristo”, nella gloria, per essere stata al suo séguito nella totale rinuncia al mondo. Ella si era consacrata “tutta al Signore, diventando nel monastero madre superiora delle vergini, mutando le vesti delicate di un tempo nel ruvido sacco che logorò le sue membra, passando inoltre in preghiera intere notti, maestra di perfezione alle altre più con l'esempio che con le parole. Fu di una umiltà così profonda e così sincera che, dopo essere stata una grande dama, con molta servitù ai suoi ordini, si considerò poi come una serva. Spregevole la sua veste, grossolano il cibo, trascurava l'acconciatura del suo corpo; mentre poi adempiva a ogni dovere, rifuggiva dal fare anche la minima ostentazione delle opere buone per non riceverne la ricompensa in questa vita”. Questa scelta scomoda, che le fece preferire “il segreto ambito ristretto di una cella” agli agi della lussuosa dimora, che avrebbe potuto godere come futura “prima donna” di Roma, ha collocato questa matrona romana sul piedistallo di una gloria che non teme l'usura del tempo, la santità.FB_IMG_1711100783507.jpg
 

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DOMENICA DELLE PALME
I Vangeli narrano che Gesù giunse con i discepoli vicino Gerusalemme e mandò due di loro nel villaggio a prendere un’asina legata con un puledro e a portarglieli. Questo avvenne, perché si adempisse ciò che era stato annunziato dal profeta Zaccaria (9,9) “Esulta grandemente figlia di Sion, giubila figlia di Gerusalemme! Ecco, a te viene il tuo re. Egli è giusto e vittorioso, umile, cavalca un asino, un puledro figlio d'asina”. La mattina dopo, i discepoli coprirono l’asina con dei mantelli e Gesù vi si pose a sedere avviandosi a Gerusalemme. Qui, si era radunata la folla numerosa, avendo sentito che stava arrivando il Messia, stese a terra i mantelli e agitando ramoscelli di ulivo e di palma, rendevano onore a Gesù. E Gesù fece il suo ingresso in Gerusalemme, sede del potere civile e religioso in Palestina, acclamato come un re seduto su un’asina, non su un cavallo simbolo di nobiltà. Certamente, il Messia, atteso come un liberatore, avrebbe dovuto cavalcare un cavallo, ma Egli scelse un’asina, animale umile, mite, a servizio della gente pacifica e lavoratrice. Quindi, Gesù si mostra un re privo di ogni forma esteriore di potere, armato solo dei segni della pace e del perdono, a partire dalla cavalcatura.
La liturgia della Domenica delle Palme, inizia in un luogo adatto fuori della chiesa. I fedeli vi si radunano e il sacerdote leggendo le orazioni, procede alla benedizione dei rami di ulivo o di palma, distribuiti ai convenuti. Dopo la processione che porta in chiesa, si procede con la lettura del Vangelo. L’uso di portare nelle proprie case l’ulivo o la palma benedetta ha un puro valore devozionale, come augurio di pace.FB_IMG_1711266849386.jpg
 

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SANTI EMANUELE E COMPAGNI martiri in Anatolia
Il nome Emanuele ha un significato importante, cioè “Dio con noi”, perché etimologicamente indica la venuta di Gesù. Nel Vangelo di Matteo leggiamo: “Tutto questo avvenne perché si adempisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: Ecco, la vergine concepirà e partorirà un figlio che sarà chiamato Emmanuele”. Emanuele indica, dunque, il Messia che si fa uomo e la sua venuta come tempo nuovo di salvezza e redenzione. Emanuele viene ricordato insieme a Sabino, Quadrato e Teodosio. L’epoca in cui vissero è incerta: si pensa che, originari dell’Oriente, siano vissuti in Anatolia, durante le persecuzioni dei cristiani del terzo secolo. Il primo a morire fu il vescovo Quadrato, che allontanato dalla sua diocesi, fu diffidato a continuare l’opera di evangelizzazione, ma poiché continuò a predicare, a battezzare e ad assistere i fedeli, fu catturato e condannato a morte. Emanuele, insieme a trentanove uomini e donne cristiani, si presentò al governatore della provincia dichiarandosi cristiano. Tutti furono torturati perché rinnegassero la loro fede, non lo fecero e furono messi a morte.FB_IMG_1711439306828.jpg
 

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GIOVEDÌ SANTO – CENA DEL SIGNORE
Oggi si celebra “l’Ultima Cena” che Gesù tenne insieme ai suoi Apostoli, nella ricorrenza della Pasqua ebraica. La Pasqua è la solenne festa ebraica, che rievoca le meraviglie che Dio compì nella liberazione degli Ebrei dalla schiavitù egiziana. In questa occasione, si consuma l’agnello ed è permesso mangiare solo pane senza lievito, il pane “azzimo”. Durante la Cena, Gesù con gli Apostoli parlò molto, con parole di commiato, di profezia, di promessa, di consacrazione. Col gesto della lavanda diede loro una grande lezione d’amore, perché i discepoli lo dovranno seguire sulla via della generosità totale nel donarsi a tutti i fratelli nell’umanità, anche se considerati, per casta o per cultura, inferiori. Ma quanti gesti e parole inusuali, quella sera, forse non subito compresi. Egli fece il dono più prezioso all’umanità, il Sacramento dell’Eucarestia, che si perpetua in ogni angolo della Terra e come Lui disse: “fate questo in memoria di me” (Lc 22,19) e del sacrificio che ha fatto per la nostra salvezza. Lo sguardo di Gesù era rivolto oltre la sua morte imminente e rassicurava i discepoli: “Ma il Consolatore, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, Egli vi insegnerà ogni cosa... Vi lascio la pace, vi dò la mia pace… Non sia turbato il vostro cuore e non abbia timore. Avete udito che vi ho detto: vado e tornerò a voi…” (Gv 14,26-28). Un colloquio di grande suggestione e ricco di emozioni, perché in undici hanno creduto in Lui, veramente Figli di Dio, lo hanno seguito in quegli anni, disposti a proseguire il suo messaggio di salvezza. Ma il tradimento di Giuda si stava consumando e Gesù si ritirò nell’Orto degli Ulivi a pregare. La sua preghiera fu: “La mia anima è triste fino alla morte” (Mc 14,34).
Inizia così la Passione di Gesù: il rito prevede la reposizione dell’Eucaristia in una cappella laterale delle chiese; tutto viene oscurato in segno di dolore, le campane tacciono, l’altare diventa disadorno, il tabernacolo vuoto con la porticina aperta, i Crocifissi coperti.FB_IMG_1711613561398.jpg
 

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VENERDÌ SANTO – PASSIONE DEL SIGNORE
Oggi, si celebra la “Passione” di Gesù, cioè tutta la vicenda che racconta l’insieme dei fatti umani e storici dolorosi che il Signore visse, fino alla morte in croce. I Vangeli raccontano come Egli si consegnò mite e benevole nelle mani di uomini che fecero di lui quello che volevano: l’“Agnello di Dio” ha preso su di sé il peccato del mondo. Nel susseguirsi degli eventi che Egli visse, il male e il peccato gli si scatenarono contro, portandolo fino alla morte, finché con la Resurrezione la vittoria finale sulla morte fu la sua. La “Passione” è caratterizzata da grande drammaticità: il tradimento di Giuda, che lo consegnò ai sommi sacerdoti con un bacio, dopo che Gesù, avendo avuto la visione della sua prossima fine, sudò sangue, ma accettò la volontà del Padre; l’arresto dei soldati; l’interrogatorio di Anna, ex sommo sacerdote; il giudizio del Sinedrio; l’incontro col governatore romano Ponzio Pilato, perché accusato di essersi proclamato re dei Giudei, comportamento di lesa maestà verso l’imperatore romano; la condanna a morte per crocifissione; la flagellazione; l’essere schernito con una corona di spine, infine il patibolo sul Golgota. Una straziante via Crucis che si concluse con la morte di Nostro Signore e la deposizione seguita dalla sepoltura del suo corpo mortale in una tomba, avvolto in un candido lenzuolo. Poi, la tomba scavata nella roccia venne chiusa con una grossa pietra. Gesù, con la sofferenza e la sua morte, ha voluto prendere su di sé ogni genere di dolori dell’intera umanità. Ha voluto indicare che la sofferenza è un male necessario, perché è già nella storia di ogni singolo uomo, come lo è la morte del corpo, come conseguenza del peccato, ma essa può essere trasformata in una luce di speranza, di compartecipazione con le sofferenze degli altri nostri fratelli, che condividono con noi, ognuno nella sua breve o lunga vita terrena, il cammino verso la patria celeste.FB_IMG_1711704000452.jpg
 

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SABATO SANTO
Il Sabato Santo è il giorno del silenzio, del raccoglimento, della meditazione per Gesù che giace nel sepolcro; solo dopo verrà la gioia della Domenica di Pasqua con la sua Resurrezione, ma il sabato regna il silenzio del riposo della morte. Anche i Vangeli tacciono: il racconto della Passione di Gesù si ferma alla sera del venerdì, all’apparire delle prime luci del sabato e riprende il terzo giorno. Il Sabato Santo è l’unico giorno senza celebrazione eucaristica: tacciono le campane, nessuna candela accesa nelle chiese spoglie, nessun canto. Anche la preghiera si fa silenziosa ed è carica di attesa: attesa di ciò che cambierà ogni cosa, ogni storia. Il Signore è morto nella carne ed è disceso nel Regno degli Inferi e con la sua morte ha distrutto la morte stessa in un mirabile combattimento. Così il Sabato Santo è un tempo capace di germinare la vita, è quindi un crescere del tempo verso il trionfo della vita nuova: il suo silenzio è un tempo carico di energie e di vita. Il Sabato Santo, Dio sembra assente, il dolore appare senza senso e Lui, dov’è? Sabato Santo è anche per chi nel suo cammino di fede incontra le tenebre, vede vacillare la propria fede, non riesce a nutrire speranza. Appare un giorno privo di sensibilità, in cui la fiducia svanisce… ma, è bene vederlo come un tempo in cui il disfacimento del nostro essere esteriore fa spazio alla crescita del nostro uomo interiore… allora, ognuno potrà dire del suo Sabato Santo: “Dio veramente era qui accanto a me, ma io non lo sapevo!” (Gen 28,16). L’aurora della Pasqua segue sempre il Sabato Santo!

Ispirato a un testo di E. BianchiFB_IMG_1711785944308.jpg
 

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PASQUA DI RISURREZIONE DEL SIGNORE
La Chiesa, al suono festante delle campane, proclama l’annuncio pasquale: Cristo è risorto, Egli vive al di là della morte, è il Signore dei vivi e dei morti. In quella che risulta essere, nella storia, la “notte più chiara del giorno”, la Parola onnipotente di Dio, Creatore di cieli e terra, che ha fatto l’uomo a sua immagine e somiglianza, chiama a una vita immortale l’“uomo nuovo”, Gesù di Nazareth. Pasqua è annuncio della risurrezione, della vita che non sarà distrutta. Gli Apostoli hanno il compito di testimoniare che Cristo è vivo e la Chiesa, nata dalla Pasqua di Cristo, lo testimonia a ogni generazione. Questa vita nuova è tutta da costruire nell’oggi in modo nuovo: Pasqua è oggi, è ogni giorno dell’esistenza umana e cristiana. È compito dei cristiani testimoniare che la vita può essere più ricca, più gioiosa, più piena, se vissuta come insegnato dal mistero pasquale, cioè che essa passa attraverso la morte soltanto per risorgere. Ogni volta che il male è vinto, ogni volta che un gesto di amicizia rivela a un fratello l’amore del Padre, ogni volta che compiamo un sacrificio per il fratello, ogni volta che aiutiamo gli altri a vivere una gioia, realizziamo la Pasqua. Si afferma quel “mondo nuovo” nel quale la “gloria della risurrezione” sarà pienamente realizzata. Il Signore ci invita a uscire dalle ricchezze e dagli egoismi personali; a uscire dal peccato che avvelena il cuore; a uscire e ad allargare la cerchia degli interessi, facendo della nostra vita un servizio d’amore. Il Signore ci invita ad andare verso la novità del Cristo, a seguire la strada del Vangelo, seminando gioia, annunciando che Cristo è vivo e risorto. La vita sarà, allora, un canto di “Alleluia!”.

Ispirato a un testo di M. MagrassiFB_IMG_1711868042649.jpg
 

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SAN FRANCESCO DA PAOLA eremita fondatore
Francesco nacque a Paola, in provincia di Cosenza, nel 1416. I suoi genitori, dopo molti anni di matrimonio non avevano avuto ancora figli, chiesero così l’intercessione di san Francesco d’Assisi, e il Signore donò loro questo bimbo, a cui diedero il nome di Francesco. All’età di 12 anni, fu portato dai genitori presso il convento dei Frati Minori Conventuali, per assolvere al voto fatto e, perché indossasse il saio francescano, come era uso in quei tempi. Qui, egli apprese dai frati i primi rudimenti scolastici e incominciò a praticare una vita austera. Rivelò, ben presto, doti eccezionali: dormiva per terra, praticava continui digiuni, si immergeva in una preghiera intensa e cominciò a compiere prodigi. Terminato l’anno da trascorrere con i frati, egli fece un pellegrinaggio e, al ritorno, maturò l’idea di ritirarsi in solitudine e di vivere da eremita, in una grotta, nei dintorni del paese, in penitenza e contemplazione: il suo letto era la nuda terra, il suo cibo le erbe che crescevano lì intorno, e l’abito un sacco; per la penitenza, aveva un cilicio. I suoi compaesani, furono attratti da questo giovane e lo cercarono per avere consigli e conforto. Giunsero a lui anche i primi compagni, persone attratte dal suo stile di vita evangelico. Francesco costruì le celle, una chiesetta per uso liturgico e vestì i giovani di sacco: nacquero gli “Eremiti di frate Francesco”. Erano i primi frati del futuro “Ordine dei Minimi”, dove “Minimo”, nella spiritualità di Francesco, è colui che sta con gli “ultimi”, con gli emarginati. I poveri e gli oppressi stavano molto a cuore a Francesco, che denunciava con forza e invettive i soprusi dei potenti su di essi. Il dono profetico e i prodigi che compiva facevano crescere l’ammirazione del popolo verso di lui. La sua fama di taumaturgo si estendeva sempre più e Papa Paolo II inviò un suo prelato per incontrare Francesco e verificare se fosse vero ciò che si raccontava, ma fu Papa Sisto IV a dare il consenso per l’istituzione del nuovo Ordine. La fama di santità dell’eremita giunse fino in Francia, dove fu costretto a recarsi su richiesta del sovrano, Luigi XI, molto malato. Il re non ottenne la guarigione, ma Francesco lo aiutò ad accogliere la volontà di Dio e a prepararsi per una buona morte. Purtroppo, non riuscì a rientrare in Calabria, perché i successori di Luigi XI si opposero, considerandolo loro consigliere e direttore spirituale. Si dedicò, allora, alla diffusione del suo Ordine, perfezionò la Regola dei frati “Minimi”, iniziò la “Devozione dei tredici venerdì della Passione”. E fu in Francia che finì la sua vita: quando fu avvertito che era prossima la sua morte, si preparò al grande passo con tre mesi di ritiro in cella. Si ammalò la domenica delle Palme e il venerdì santo si addormentò nel Signore.FB_IMG_1712048479093.jpg
 

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